Trasferire tutto, tranne i diritti: l’ombra lunga di un volo mai interrotto

di Filippo Capurro

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1. La vicenda

L’ordinanza del Tribunale di Roma 16 settembre 2025, est. Orru, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una serie di quesiti pregiudiziali relativi all’operazione di cessione tra Alitalia e ITA Airways.

Una breve ricostruzione della vicenda aiuta a comprenderne le implicazioni giuridiche.

Nell’autunno del 2021, Alitalia atterra per l’ultima volta. Dopo decenni di voli e turbolenze, la compagnia di bandiera chiude la sua ultima tratta il 14 ottobre.

Ma il giorno successivo, quasi senza che passeggeri e osservatori abbiano il tempo di rendersene conto, un’altra compagnia – ITA Airways – decolla.

Usa gli stessi aerei, impiega lo stesso personale, vola sulle stesse rotte.

Cambia il nome, non il servizio.

Dietro questo passaggio – apparentemente fluido – c’è un’operazione societaria molto articolata.

Alitalia aveva intrapreso un lungo percorso di dismissione dei suoi asset, dopo anni di crisi e interventi pubblici.

Il 2 maggio 2017, il Ministero dello Sviluppo Economico aveva dato avvio alla procedura di amministrazione straordinaria.

Di fronte all’impossibilità di risanare l’azienda, la scelta era ricaduta sulla costituzione di una nuova compagnia pubblica, Italia Trasporto Aereo S.p.A. (ITA), cui sarebbe stato affidato il compito di “raccogliere l’eredità”, ma a certe condizioni.

Con la Decisione della Commissione europea SA.58173 del 10 settembre 2021, relativa all’aiuto di Stato a favore di Italia Trasporto Aereo S.p.A., si stabiliva – in vista dell’approvazione del piano industriale di ITA – che non vi fosse continuità economica con Alitalia, chiarendo che ITA non sarebbe stata a chiamare a rispondere delle pendenze comunitarie di Alitalia in materia di aiuti di stato.

Il contratto di cessione del compendio “Aviation” trasferiva a ITA l’intero pacchetto operativo legato al trasporto aereo passeggeri: aeromobili, slot aeroportuali, diritti di volo, sistemi informatici, perfino le livree e le divise. Tutto passava alla nuova compagnia, tranne una parte essenziale: i rapporti di lavoro.

Solo una parte dei lavoratori Alitalia, infatti, veniva riassunta da ITA, tramite nuovi contratti e a condizioni peggiorative. Degli oltre 6.600 addetti al settore Aviation, ne venivano assunti poco più di 2.200. Nessun passaggio ex art. 2112 c.c.

Tutto avveniva nel perimetro ristretto di una nuova selezione, discrezionale e autonoma.

Si generava così un articolato contenzioso: i lavoratori di Alitalia rivendicavano il diritto alla prosecuzione del rapporto, sostenendo che, al di là della cornice giuridica costruita attorno all’operazione, ciò che si era realizzato è una cessione di ramo d’azienda, con conseguente applicazione dell’art. 2112 c.c. e delle tutele europee previste in caso di trasferimento.

ITA, al contrario, affermava che l’operazione si era svolta in un contesto di amministrazione straordinaria con finalità liquidatoria, che la Commissione europea, con decisione del 10 settembre 2021, aveva escluso la continuità economica tra le due società (pur ai soli fini degli aiuti di Stato) e che l’assunzione del personale era avvenuta a condizioni di mercato e senza obblighi di continuità.

Alcuni tribunali hanno ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 2112 c.c., altri no.

E mentre il contenzioso si accendeva, il Governo interveniva con l’art. 6 D.L. n. 131/2023 (convertito con L. n. 169/2023), rubricato come “disposizione di interpretazione autentica dell’art. 56, comma 3-bis, D.lgs. 270/1999”.

Secondo tale norma, ogni qualvolta una decisione della Commissione europea dichiari l’assenza di continuità economica tra cedente e cessionario – come accaduto nella decisione SA.58173/2021 – deve ritenersi esclusa l’applicabilità dell’art. 2112 c.c. e quindi l’esistenza di un trasferimento d’azienda ai fini lavoristici.

Con la sentenza dell’8 luglio 2025, n. 99, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale su tale norma, ritenendo che essa ha natura “genuinamente interpretativa”, limitandosi a chiarire l’interpretazione della legge precedente piuttosto che introdurre una nuova regola sostanziale.

2. Le questioni giuridiche in gioco

La vicenda Alitalia–ITA ha determinato un confronto giuridico tanto acceso quanto complesso che riguarda un groviglio interpretativo di sistema, dove si intrecciano norme del diritto del lavoro, disciplina concorsuale e fonti europee.

Tre gli snodi.

2.1. La portata della decisione della Commissione europea del 10 settembre 2021

Il primo punto controverso riguarda la valenza giuridica della menzionata decisione SA.58173/2021 della Commissione europea.

La domanda è se la discontinuità dichiarata dall’Europa vale anche per escludere che vi sia stato un trasferimento di ramo d’azienda.

La risposta che la giurisprudenza ha dato è stata essenzialmente negativa.

Diversi tribunali hanno affermato, in modo netto, che la decisione della Commissione non può interferire sulla qualificazione lavoristica dell’operazione. Non solo perché il diritto UE prevede ambiti distinti per concorrenza e lavoro, ma altresì perché quella decisione è stata adottata ex ante, sulla base di un piano teorico, mentre i giudici nazionali sono chiamati a valutare ex post, sulla base di ciò che è realmente accaduto.

Questa è la linea assunta, tra le altre, da Tribunale di Milano, 1 giugno 2023, n. 1227 (Colosimo); Tribunale di Milano, 12 dicembre 2023, n. 2783 (Atanasio) e Tribunale di Roma, 13 dicembre 2023, n. 11341 (Tizzano).

2.2. La configurabilità di un trasferimento di ramo d’azienda

Il secondo profilo riguarda l’essenza dell’operazione: ciò che è stato ceduto da Alitalia a ITA può davvero essere considerato giuridicamente un ramo d’azienda?

A questa domanda, la risposta della giurisprudenza è stata, per lo più, affermativa.

I giudici che hanno analizzato la vicenda in concreto hanno ritenuto che ci fossero tutti gli elementi per parlare di un vero e proprio trasferimento di ramo d’azienda, ai sensi dell’art. 2112 c.c. e della Direttiva 2001/23/CE.

Cosa si è trasferito, in effetti? Gli aeromobili, gli slot aeroportuali, le rotte, il know-how organizzativo, e, soprattutto, un personale proveniente da Alitalia in misura quasi totalitaria (oltre il 99% delle nuove assunzioni ITA). L’attività di volo non si è mai interrotta: è semplicemente passata di mano da un giorno all’altro, con aerei identici, rotte identiche e biglietti emessi sulla stessa piattaforma informatica.

Queste considerazioni hanno portato molti tribunali a ritenere che si fosse in presenza di un’entità funzionalmente autonoma trasferita in blocco, con una chiara continuità produttiva. Tra le decisioni più rilevanti Tribunale di Roma, 26 luglio 2023, n. 6205 (Cottatellucci); Tribunale di Milano, 12 dicembre 2023, n. 2783; Tribunale di Roma, 13 dicembre 2023, n. 11341; Tribunale di Milano, 1 giugno 2023, n. 1227

2.3. L’effetto derogatorio” dell’amministrazione straordinaria

Il nodo più delicato riguarda però la possibilità che la sola collocazione dell’operazione entro una procedura di amministrazione straordinaria escluda, in automatico, l’applicabilità dell’art. 2112 c.c.

In particolare, ci si interroga se basti che il programma sia formalmente qualificato come “liquidatorio” (ex art. 27, co. 2, lett. b-bis), D.Lgs. n. 270/1999), per far scattare la deroga alle tutele ordinarie in caso di trasferimento d’azienda.

Secondo un primo orientamento – seguito, tra le altre, da tre decisioni del Tribunale di Roma (26 luglio 2023, n. 6205; 13 dicembre 2023, n. 11341; ord. 18 giugno 2024, est. Orrù) – la risposta è negativa.

A prevalere deve essere un accertamento sostanziale: ciò che rileva non è infatti la qualificazione formale della procedura, ma la sua concreta finalità.

E nel caso Alitalia–ITA gli elementi di fatto depongono per una finalità conservativa: l’esercizio commissariale è durato oltre quattro anni; il ramo Aviation è stato ceduto senza passività e a piena operatività; gli altri rami (Handling e Maintenance) sono stati ceduti con applicazione dell’art. 2112 c.c.; e non risulta alcun accordo sindacale derogatorio ex art. 47, co. 4-bis, L. 428/1990. In questa lettura, l’art. 56, co. 3-bis, D.Lgs. n. 270/1999 introduce una deroga solo potenziale, da valutare caso per caso, nel rispetto dei principi costituzionali e del diritto UE.

Di segno opposto è invece l’orientamento “formalista”, accolto dal Tribunale di Milano (1° giugno 2023, n. 1227), dalla Corte d’Appello di Milano (15 maggio 2024, n. 426) e, in parte, dallo stesso Tribunale di Roma (13 dicembre 2023, n. 11341).

Secondo questa impostazione, è sufficiente che l’operazione si svolga in attuazione di un programma liquidatorio e che la Commissione europea abbia escluso la continuità economica, per negare l’applicazione dell’art. 2112 c.c.

Tre le basi argomentative: (i) l’art. 56, co. 3-bis, è norma speciale e prevalente; (ii) la prosecuzione dell’attività può servire solo alla tutela del valore per la liquidazione, senza valore indiziante in sé; (iii) l’esercizio d’impresa anche prolungato è uno strumento tecnico, non un segnale di conservazione.

In questa prospettiva, il giudice non è chiamato ad accertare in concreto le finalità della procedura, ma deve fermarsi al dato normativo e alle dichiarazioni formali: se il programma è liquidatorio e la Commissione ha escluso la continuità, allora l’art. 2112 c.c. non si applica.

3. L’ordinanza di remissione alla CGUE

Di fronte alla sovrapposizione tra fonti nazionali ed europee, il Tribunale di Roma ha ritenuto necessario interpellare la Corte di giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato, in materia di “questione pregiudiziale”.

I quesiti formulati si articolano su sei direttrici principali.

Il primo nucleo riguarda la corretta interpretazione dell’art. 5, par. 1, della Direttiva 2001/23/CE, là dove consente deroghe alla tutela dei lavoratori nei casi in cui il trasferimento avvenga nell’ambito di una “procedura fallimentare o analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente”.

Il Tribunale chiede se tale condizione sia soddisfatta anche nel caso dell’amministrazione straordinaria, una procedura che – per legge – persegue finalità conservative e presuppone concrete prospettive di risanamento, almeno nella sua fase iniziale. L’interrogativo centrale è se basti la qualificazione formale della procedura o se, al contrario, sia necessario verificare in concreto se vi sia stato un intento liquidatorio.

Il secondo gruppo di quesiti si concentra invece sul requisito del “controllo pubblico” della procedura, anch’esso richiesto dalla Direttiva per ammettere deroghe alla disciplina dei trasferimenti d’azienda.

Qui il dubbio del giudice è se possa dirsi soddisfatto questo requisito quando il controllo del giudice nazionale è limitato a pochi snodi formali (come l’apertura e la chiusura della procedura), senza un vero sindacato sul merito delle scelte compiute dal commissario e sulle loro finalità.

Il terzo quesito porta la questione su un piano più ampio, domandandosi se il diverso trattamento (in relazione ai diritti di continuità del rapporto di lavoro e delle relative condizioni) dei lavoratori coinvolti in procedure “conservative” rispetto a quelli inseriti in procedure “liquidatorie”, nonostante situazioni di fatto analoghe (ad esempio cessioni d’azienda con continuità operativa), non integri una forma di discriminazione indiretta contraria all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La questione, qui, non è solo di qualificazione giuridica, ma di equità sostanziale tra soggetti comparabili.

Seguono, a cascata, due domande consequenziali.

Da un lato, si chiede alla Corte se – in caso di discriminazione indiretta non giustificata tra lavoratori coinvolti in procedure concorsuali formalmente liquidatorie ma concretamente conservative – possa trovare applicazione il principio elaborato nella sentenza CGUE, Grande Sezione, 17 aprile 2018, C-414/16, Egenberger (punti 75-80), secondo cui il lavoratore svantaggiato ha diritto a ottenere le stesse tutele riconosciute ai lavoratori trattati in modo più favorevole, ove la disparità non sia sorretta da una ragione obiettiva e proporzionata.

Dall’altro lato, si chiede se le modifiche introdotte dal sopra menzionato art. 1, comma 1-bis, del D.L. n. 4/2024 – le quali hanno inciso retroattivamente su giudizi in corso e in un contesto in cui il Governo italiano rivestiva un ruolo diretto come autorità di controllo dell’impresa cedente – possano rappresentare un ostacolo all’esercizio effettivo del diritto a un ricorso giurisdizionale.

In tal senso, il giudice rimettente denuncia un possibile contrasto con gli artt. 47 e 54 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), che tutelano il diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale e, per effetto dell’art. 52, par. 3, CDFUE, con i corrispondenti artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che sanciscono il diritto a un processo equo e a un rimedio effettivo.

Chiude il quadro l’ultimo quesito, di grande rilevanza sistemica, che interroga la Corte sul rischio di regressione delle tutele minime garantite dalla Direttiva 2008/94/CE nei confronti dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore, a seguito dell’interpretazione restrittiva accolta dal legislatore nazionale e dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 99 del 2025.

Rimaniamo dunque in attesa della pronuncia della Corte europea, per sapere finalmente se, quando gli aerei decollano, i diritti volano con loro o rimangono a terra.