Nullo il licenziamento per giusta causa successivo a una segnalazione di whistleblowing

di Domenico Tambasco
Il caso.
La vicenda lavorativa protagonista della pronuncia in commento trae origine dall’impugnazione, proposta da un lavoratore, del licenziamento per giusta causa intimato dalla società datrice presso cui era stato assunto con la qualifica di responsabile commerciale.
Sin dalle prime fasi del rapporto, il lavoratore lamentava una situazione di tensione con la propria responsabile gerarchica, che – a suo dire – ne limitava costantemente l’autonomia operativa e decisionale.
La situazione precipitava quando il lavoratore decideva di partecipare a una “Global Survey” promossa dalla sede centrale dell’azienda, nella quale esprimeva, seppur in forma anonima, giudizi critici sul comportamento del proprio superiore. La compilazione del questionario, che richiedeva l’indicazione del dipartimento e della sede di appartenenza, rendeva tuttavia agevole l’individuazione del compilatore. Secondo quanto riferito dal ricorrente, la responsabile veniva effettivamente a conoscenza delle osservazioni a lei riferibili, con conseguente ulteriore peggioramento del clima lavorativo.
A fronte di tale deterioramento, il lavoratore inoltrava una segnalazione formale tramite il canale whistleblowing aziendale, nella quale denunciava le specifiche condotte poste in essere dal proprio superiore gerarchico.
Poco tempo dopo, tuttavia, perveniva una contestazione disciplinare nella quale venivano addebitate al segnalante presunte mancanze di iniziativa sul territorio, difetti nella gestione della rete agenti, insubordinazione e proposte commerciali ritenute inappropriate. Contestualmente all’avvio del procedimento disciplinare, la società richiedeva anche l’immediata restituzione degli strumenti aziendali e procedeva alla disattivazione della casella di posta elettronica, escludendo di fatto il lavoratore dai canali informatici aziendali e dalla possibilità di svolgere ulteriori attività lavorative.
A distanza di pochi giorni, il procedimento disciplinare veniva chiuso con il licenziamento per giusta causa. Il ricorrente, quindi, contestava la legittimità del recesso, deducendone la nullità per motivo ritorsivo, in quanto manifestamente collegato alla segnalazione interna inoltrata tramite il canale protetto, e comunque privo di concreto fondamento, oltreché totalmente generico.
La società, costituitasi in giudizio, respingeva ogni accusa, rivendicando la piena legittimità del provvedimento espulsivo e negando l’esistenza di qualsivoglia intento ritorsivo.
Ritenuta la causa matura per la decisione allo stato degli atti, il Tribunale milanese accoglieva la tesi del lavoratore, rilevando come gli addebiti contestati risultassero, per un verso, generici e, per altro verso, inidonei a integrare una condotta disciplinarmente rilevante. Sotto quest’ultimo profilo, infatti, l’unico episodio effettivamente ricostruibile – relativo al mancato collegamento da remoto in occasione di una visita commerciale – non presentava alcun contenuto disciplinarmente censurabile.
Risultava altresì accertato, in giudizio, che già prima dell’interruzione del rapporto la società avesse avviato la selezione di un nuovo profilo professionale corrispondente a quello del ricorrente, a dimostrazione di una volontà espulsiva preesistente alla contestazione.
Il Giudice riteneva pertanto provata la natura ritorsiva del licenziamento, valorizzando in particolare la stretta consequenzialità temporale tra la segnalazione di whistleblowing e il provvedimento sanzionatorio successivo, nonché l’assenza di un valido motivo alternativo a giustificazione del recesso, considerata soprattutto l’irrilevanza disciplinare e l’insussistenza dei fatti materiali posti alla base del licenziamento per giusta causa. A tal fine, trovava pertanto applicazione l’art. 17, comma 2 del D.Lgs. n. 24/2023, che introduce una presunzione relativa di ritorsione in caso di misure sfavorevoli successive alla segnalazione, con conseguente inversione dell’onere probatorio in capo al datore di lavoro. Onere che, nel caso concreto, non risultava assolto.
Sulla base di tali presupposti, il Tribunale dichiarava la nullità del licenziamento per motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c., con conseguente applicazione della tutela reintegratoria “forte” prevista dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015.
Il valore innovativo della decisione.
La sentenza n. 1680/2025 del Tribunale di Milano – Sezione Lavoro assume un particolare rilievo sistematico in quanto rappresenta, ad oggi, la prima applicazione giurisprudenziale dell’art. 17, comma 2 del D.Lgs. n. 24/2023 che ha introdotto, in attuazione della direttiva UE 2019/1937, un rinnovato sistema di protezione per i segnalanti, implementando la previgente disciplina di cui alla L. n. 179/2017.
In particolare, la decisione del tribunale ambrosiano si segnala per l’esplicita valorizzazione del meccanismo probatorio presuntivo previsto dall’art. 17, comma 2, del Decreto, secondo cui si presume che la ritorsione sia stata posta in essere a causa della segnalazione, denuncia o divulgazione pubblica, salvo prova contraria da parte del soggetto autore della misura. Tale disposizione determina un’inversione dell’onere della prova in favore del whistleblower, imponendo all’autore dell’atto o della condotta impugnata l’onere di dimostrare l’esistenza di un motivo legittimo, autonomo e distinto rispetto alla segnalazione, denuncia o divulgazione pubblica.
La sentenza in commento applica tale presunzione in maniera rigorosa, valorizzando sia la stretta consequenzialità temporale tra la segnalazione (22 aprile 2024), la contestazione disciplinare (9 maggio 2024) e il licenziamento (16 maggio 2024), sia l’inconsistenza oggettiva degli addebiti formulati, che risultano -come detto- irrilevanti e insussistenti.
Superamento delle resistenze giurisprudenziali.
La pronuncia milanese si distingue, in modo marcato, rispetto all’orientamento giurisprudenziale consolidatosi sotto la vigenza della L. n. 179/2017 (sia permesso rimandare a D. Tambasco, Le misure sostanziali e processuali di protezione dalle ritorsioni, in R. Cantone, N. Parisi, D. Tambasco, (a cura di), Whistleblowing. Commento sistematico alla disciplina del d.lgs. n. 24/2023, Milano, 2025, 507 e ss.), segnando un significativo mutamento di prospettiva in merito al riparto dell’onere della prova nei giudizi relativi a condotte ritorsive successive a segnalazioni di whistleblowing.
La prassi applicativa precedente, infatti, aveva sostanzialmente neutralizzato la portata protettiva della disciplina, escludendo l’operatività di qualsiasi meccanismo presuntivo e richiedendo invece al lavoratore di dimostrare, in via diretta e stringente, il “nesso di derivazione tra segnalazione e misura pregiudizievole”, in aperto contrasto con il dato normativo (cfr. Cass., 6 dicembre 2024, n. 31343; Trib. Milano, ord. 3 febbraio 2022; Trib. Milano, 13 dicembre 2023, n. 3854; C. App. Milano, 3 marzo 2023, n. 252; C. App. Palermo, 30 agosto 2022, n. 807; Trib. Palermo, 12 giugno 2020, n. 1575; contra, Trib. Salerno, 10 gennaio 2023, n. 13; Trib. Mantova, 30 marzo 2021). In tal modo, l’intervento giurisprudenziale aveva finito per disattendere la ratio della norma, ponendo a carico del segnalante un onere probatorio pressoché insormontabile, incentrato di fatto sull’allegazione e sulla dimostrazione di un nesso causale immediato tra segnalazione e misura pregiudizievole.
La decisione in esame, al contrario, recepisce integralmente il principio – oggi positivamente codificato all’art. 17, comma 2 del D.Lgs. n. 24/2023 – secondo cui grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare che l’atto (o comportamento) lesivo sia fondato su ragioni estranee alla segnalazione, una volta accertata la sua adozione in stretta consequenzialità cronologica rispetto a quest’ultima. Si tratta di un passaggio interpretativo di grande rilievo sistematico, che segna il superamento della tradizionale impostazione giurisprudenziale, imperniata sull’art. 2697 c.c., e che riconosce finalmente natura effettiva alla tutela differenziata predisposta in favore del segnalante.
La persistente prospettiva monistica e l’assetto dualistico della disciplina delle ritorsioni.
La pronuncia in esame sembra collocarsi, almeno formalmente, nell’alveo di una prospettiva monistica della ritorsione, ricostruendola nell’ambito dell’art. 1345 c.c. e qualificando la nullità dell’atto espulsivo come conseguente all’illiceità del motivo determinante. Tale impianto, tipico dell’impostazione civilistica, richiede che il lavoratore dimostri sia il carattere ritorsivo del provvedimento datoriale (motivo illecito) sia l’assenza di altre ragioni lecite determinanti (esclusività del motivo), ovvero che l’unica vera ragione dell’atto sia riconducibile alla volontà di punire un comportamento legittimo del dipendente, con conseguente irrilevanza – o insussistenza – delle motivazioni formalmente addotte (cfr., ex multis, Cass., 9 gennaio 2024, n. 741; Cass., 25 gennaio 2021, n. 1514; Cass., 31 agosto 2020, n. 18136).
A ben guardare, tuttavia, l’approccio adottato dal giudice può essere più propriamente definito sincretistico, in quanto – pur muovendosi all’interno dello schema dettato dal Codice civile – integra in modo esplicito l’inversione dell’onere della prova prevista dal decreto attuativo. Il giudizio sulla nullità del licenziamento viene, cioè, costruito sulla base del motivo illecito determinante, ma il giudice dà rilievo alla successione temporale tra la segnalazione e la misura espulsiva, ponendo a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare che il recesso sia stato determinato da cause estranee alla propalazione. In tal modo, viene recepito uno degli elementi fondanti della tutela rafforzata introdotta dalla normativa whistleblowing: la presunzione relativa di ritorsività in presenza di un mero nesso cronologico.
Si tratta di un’evoluzione interpretativa che, se da un lato consente di superare le rigidità probatorie del modello codicistico puro, dall’altro rischia di generare incertezza sistematica, in quanto sovrappone due regimi normativi profondamente diversi per struttura e ratio.
Come si è appena evidenziato, infatti, mentre l’art. 1345 c.c. implica un rigoroso onere dimostrativo a carico del lavoratore, sia sotto il profilo dell’intento soggettivo, sia in termini di esclusività causale, al contrario la disciplina speciale introdotta dal D.Lgs. n. 24/2023 si fonda su presunzioni legali, inversione dell’onere della prova e protezione anticipata del segnalante.
In siffatto contesto, chi scrive ritiene che nel sistema vigente si sia ormai consolidato un modello dualistico della ritorsione (cfr. D. Tambasco, A. Rosiello, Il risarcimento del danno da stress lavorativo, Milano 2024, 85-87): da un lato, la ritorsione “generica” ex art. 1345 c.c., con i suoi presupposti restrittivi e l’onere probatorio pieno a carico del lavoratore; dall’altro, le ritorsioni qualificate, regolate da discipline speciali – in particolare quelle in materia di whistleblowing (art. 17 D.Lgs. n. 24/2023), di molestie e discriminazioni (art. 26 comma 3 e 41-bis D.Lgs. n. 198/2006; art. 4-bis D.Lgs. n. 216/2003; art. 4-bis D.Lgs. n. 215/2003), di lavoro agile (art. 18 comma 3-bis D.Lgs. n. 81/2017) e caregiving (art. 8, comma 5-bis D.Lgs. n. 81/2015; art. 2-bis D.Lgs. n. 104/1992) – che prevedono presunzioni legali (relative), inversioni o attenuazioni degli oneri probatori e risarcimenti con finalità dissuasive. In questi casi, in particolare, il legislatore ha ritenuto che sul piano probatorio il lavoratore non debba dimostrare l’intento soggettivo del datore, ma solo la sequenza fattuale degli eventi, con onere invertito in capo al datore di lavoro.
In questo contesto, la scelta del giudice di coniugare l’art. 1345 c.c. con l’inversione dell’onere della prova ex art. 17 D.Lgs. n. 24/2023 può essere letta come un tentativo di adattare la tradizionale categoria civilistica della ritorsione ai nuovi strumenti protettivi di matrice eurounitaria. Tuttavia, una piena coerenza sistematica richiederebbe di riconoscere apertamente l’autonomia della ritorsione “qualificata”, distinguendola, anche sul piano teorico e processuale, da quella “codicistica”.
Va precisato, infine, che la sanzione della nullità del licenziamento ritorsivo del segnalante trova oggi un espresso fondamento normativo proprio nella disciplina in materia di whistleblowing: l’art. 4 della L. n. 604/1966, come modificato dall’art. 24, comma 3 del D.Lgs. n. 24/2023, ricomprende infatti tra i licenziamenti discriminatori anche quello ritorsivo, adottato in conseguenza della segnalazione di illeciti, denuncia o divulgazione pubblica ai sensi del decreto attuativo.
Il contenuto della segnalazione.
La sentenza in commento afferma che la protezione del segnalante non sarebbe condizionata dal contenuto oggettivo della segnalazione, ritenuto irrilevante ai fini dell’attivazione delle tutele previste dalla normativa (“Va precisato che non è rilevante il contenuto della segnalazione…ma il solo fatto che la denuncia sia stata inoltrata”). Tale affermazione – pur volta a rafforzare la posizione del whistleblower nella fase successiva, segnata dall’adozione di eventuali misure ritorsive – si discosta tuttavia dall’impostazione sistematica delineata dal legislatore e, in larga parte, recepita anche in giurisprudenza, secondo cui la verifica del contenuto della propalazione costituisce passaggio imprescindibile per l’accesso al perimetro applicativo della disciplina.
L’art. 1, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 24/2023 esclude infatti espressamente dalla nozione di segnalazione tutelata quelle che attengano “esclusivamente” a rapporti individuali di lavoro o a rivendicazioni di carattere personale. Analoga esclusione è prevista dal considerando n. 22 della Direttiva 2019/1937. Di conseguenza, tanto la norma interna quanto quella europea richiedono, come condizione di ammissibilità -unitamente alle ulteriori previste dall’art. 16 del D.Lgs. n. 24/2023, cfr. R. Cantone, Le condizioni per l’accesso allo statuto di protezione, in R. Cantone, N. Parisi, D. Tambasco, (a cura di), Whistleblowing, op. cit., 451 e ss. –, che la segnalazione si riferisca a violazioni idonee a ledere l’interesse pubblico o l’integrità dell’ente, non essendo sufficiente la sola formalizzazione dell’atto di segnalazione né la correttezza procedurale dello stesso.
Ed è qui che si pone un nodo interpretativo rilevante, che merita un’ulteriore riflessione. Se è vero, infatti, che la normativa esclude la protezione per le segnalazioni motivate esclusivamente da interessi personali, è altrettanto vero che lo stesso legislatore – attraverso l’uso di tale avverbio – riconosce l’ammissibilità di quelle segnalazioni in cui l’interesse individuale si accompagni a un interesse collettivo: si pensi, ad esempio, alla denuncia di condotte moleste o vessatorie che coinvolgano più soggetti o che si pongano in contrasto con il codice etico dell’organizzazione o con il modello 231/2001 (quale potrebbe essere stato il caso oggetto della pronuncia in commento).
In tali ipotesi, il segnalante non è qualificabile come egoistic blower – ovvero come soggetto che agisce unicamente per la tutela della propria posizione soggettiva – bensì come portatore di un interesse misto, che fonde la dimensione individuale con quella collettiva. Si tratta, quindi, di segnalazioni potenzialmente ammissibili e meritevoli di protezione, purché riferibili a violazioni che compromettano l’integrità dell’ente, della pubblica amministrazione o, più in generale, dell’ambiente di lavoro (si pensi, ad esempio, alla segnalazione di un ambiente nocivo e stressogeno; sul whistleblowing come strumento di prevenzione della salute e sicurezza sul lavoro, sia permesso rimandare al contributo di A. Rosiello, D. Tambasco, Prevenire lo stress sul lavoro: dalla formazione obbligatoria al whistleblowing. Verso una nuova cultura della sicurezza e della dignità, LPO, 27 maggio 2025).
Anche ANAC, con costante indirizzo interpretativo (cfr. delibera n. 782/2019 e Linee guida 2021), ha chiarito che l’esistenza di un interesse personale non esclude di per sé la riconducibilità della segnalazione alla disciplina del whistleblowing, laddove essa sia funzionale – anche indirettamente – alla salvaguardia di un interesse generale. Analoghi principi si rinvengono nella giurisprudenza amministrativa (TAR Lazio, sez. I-quater, 7 gennaio 2023, n. 236), che ha ribadito come la protezione del segnalante non sia condizionata dall’assenza di un vantaggio personale, ma dall’esistenza di un nesso con l’interesse collettivo dell’amministrazione o dell’ente.
In definitiva, se da un lato va esclusa la possibilità di utilizzare impropriamente il canale whistleblowing per far valere mere doglianze individuali (Trib. Milano, 6 febbraio 2025, n. 604), dall’altro occorre evitare di adottare un approccio eccessivamente formalistico che finisca per espungere dal sistema segnalazioni effettivamente rilevanti sotto il profilo della legalità organizzativa. La corretta ricostruzione dell’ambito oggettivo di applicazione della normativa passa, pertanto, attraverso un’analisi concreta e sostanziale del contenuto della segnalazione, volta a verificare l’eventuale presenza di un interesse pubblico o collettivo, anche se concorrente con quello personale del segnalante.
Conclusioni.
In conclusione, la sentenza del Tribunale di Milano appare destinata a costituire un importante precedente nella giurisprudenza di merito, soprattutto per aver saputo cogliere e applicare correttamente lo spirito e la lettera della nuova architettura normativa predisposta a tutela dei whistleblower.
In un contesto in cui le resistenze giurisprudenziali si sono spesso tradotte in una sostanziale dissuasione alla segnalazione di illeciti endoaziendali, la pronuncia del Tribunale di Milano si distingue, quindi, per il suo contributo alla piena effettività del diritto di whistleblowing (cfr. F. Marinelli, P. Tomassetti (a cura di), Il diritto di whistleblowing. Una lettura lavoristica, Torino, 2025), ponendo finalmente il segnalante in una posizione di tutela conforme ai principi nazionali ed europei.