Dalle tutele crescenti alla piena tutela. La sentenza n. 118/2025 della Consulta tra necessità giuridica e superamento del falso compromesso per le piccole imprese

di Francesca Albiniano
Premessa
La recentissima pronuncia della Corte costituzionale, n. 118 del 21 luglio 2025, si inserisce in un dibattito pluriennale concernente l’adeguatezza e la costituzionalità del regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti illegittimi nelle “piccole imprese”.
In particolare, la sentenza in esame affronta la vexata quaestio del tetto risarcitorio per i datori di lavoro di piccole dimensioni, ponendosi come epilogo, o quantomeno come una tappa fondamentale, di un percorso giurisprudenziale che segue la sentenza – depositata esattamente tre anni prima – n. 183 del 22 luglio 2022.
La Consulta, nella specie, ha statuito l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1, del D.Lgs., 4 marzo 2015, n. 23 (Jobs Act). Tale illegittimità si riferisce alla parte in cui la norma prevede che l’ammontare delle indennità risarcitorie spettanti in caso di licenziamenti illegittimi intimati da datori di lavoro che non soddisfano i requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 18, ottavo e nono comma, della L. 20 maggio 1970, n. 300, “non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità“.
L’intervento della Consulta, lungi dall’essere un mero tecnicismo giuridico, investe principi fondamentali quali la tutela del lavoratore, la funzione dissuasiva delle sanzioni e la discrezionalità legislativa, il tutto sullo sfondo di un sistema normativo, il Jobs Act, che fin dalla sua introduzione ha generato ampi dibattiti e tentativi di riforma, inclusi quelli a mezzo referendario.
1. Il contesto normativo: il jobs act e il “regime speciale” per i piccoli datori di lavoro
Il Decreto Legislativo n. 23/2015, come noto, ha introdotto il c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, modificando il regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo.
Per i datori di lavoro con meno di quindici dipendenti (“sottosoglia”), l’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 prevedeva un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata nel massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
L’obiettivo dichiarato del Jobs Act era quello di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, fornendo alle imprese, in particolare alle piccole e medie, un quadro di maggiore prevedibilità dei costi in caso di contenzioso.
Detta prevedibilità era considerata cruciale per rimuovere freni all’occupazione e stimolare la crescita economica, in un contesto in cui il timore di contenziosi onerosi era percepito come un ostacolo all’assunzione.
È fondamentale, in questo contesto, richiamare l’art. 8 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, che già prevedeva un regime differenziato per i licenziamenti ingiustificati nelle imprese minori.
Siffatta disposizione stabiliva, per i datori di lavoro che non rientravano nel campo di applicazione dell’art. 18 St. lav. (ossia le piccole imprese), che in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, il giudice potesse condannare il datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore o, in alternativa, al risarcimento del danno, il quale non poteva superare un massimo di sei mensilità di retribuzione.
Il Jobs Act, pur innovando il sistema, sembrava in tal senso riprendere, per le imprese “sottosoglia”, un limite massimo risarcitorio già presente nella legislazione preesistente, confermando una sorta di favore legislativo verso le piccole realtà imprenditoriali.
2. La sentenza del 22 luglio 2022 n. 183: un allarme inascoltato
Già la sentenza n. 183/2022 aveva affrontato questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 9, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015.
In quell’occasione, la Corte aveva dichiarato inammissibili le questioni sollevate, ma aveva lanciato un esplicito “allarme inascoltato” al legislatore.
La Consulta, invero, aveva riconosciuto la complessità della materia e l’ampio spettro di soluzioni che il legislatore avrebbe potuto elaborare per rimodulare le soglie dell’indennità; tra le soluzioni prospettate dal giudice a quo vi era anche l’eliminazione del regime speciale previsto per i piccoli datori di lavoro, soluzione che la Corte aveva ritenuto rimessa all’apprezzamento discrezionale del legislatore per le sue ragguardevoli implicazioni sistematiche.
La sentenza n. 183/2022 aveva sottolineato l’ineludibilità delle valutazioni discrezionali del legislatore, in quanto investono il rapporto tra mezzi e fini, e non possono competere alla Corte.
Era stato ribadito che la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario rientra nella prioritaria valutazione del legislatore, in un contesto normativo di importanza essenziale per la sua connessione con i diritti della persona del lavoratore e per i suoi effetti sul sistema economico complessivo. La Corte aveva, inoltre, evidenziato la necessità di una revisione complessiva della materia, frutto di interventi normativi stratificati, che investisse sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie. Fondamentale era l’avvertimento che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe stato tollerabile e avrebbe indotto la Corte, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà descritte.
Questo monito rappresentava una chiara indicazione al legislatore di prendere sul serio le criticità del sistema, avvertendolo delle conseguenze in caso di mancato intervento.
3. La sentenza n. 118 del 2025: l’intervento diretto della Corte e la questione referendaria
L’inerzia del legislatore, a quanto pare, ha spinto la Corte costituzionale a intervenire direttamente con la sentenza in commento.
Il sindacato di legittimità costituzionale è stato attivato in via incidentale dal Tribunale di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, tramite ordinanza del 2 dicembre 2024. Oggetto del contendere era la disciplina delle indennità risarcitorie spettanti in caso di licenziamenti illegittimi intimati da datori di lavoro che non soddisfino i requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 18, ottavo e nono comma, L. 20 maggio 1970, n. 300.
Il giudice rimettente ha prospettato la violazione degli artt. 3, primo e secondo comma (principio di eguaglianza e funzione di rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale), 4, primo comma (diritto al lavoro), 35, primo comma (tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni), 41, secondo comma (l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana), e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea (CSE) che garantisce il diritto alla protezione in caso di licenziamento.
La ratio della censura risiedeva nella ritenuta irragionevolezza della limitazione della tutela indennitaria. Siffatta limitazione, derivante dal dimezzamento delle somme (rispetto al regime ordinario) e dall’imposizione di un tetto massimo di sei mensilità, impedirebbe una “personalizzazione” del risarcimento in funzione della gravità del vizio del licenziamento, compromettendo l’adeguatezza del ristoro e l’efficacia deterrente della sanzione.
Si contestava, altresì, che il criterio dimensionale, non più pienamente idoneo a rivelare la forza economica del datore di lavoro, generasse un’ingiustificata disparità di trattamento.
Il ragionamento della Corte si basa sulla considerazione che il tetto massimo impedisce una “personalizzazione adeguata del risarcimento” posto che la tutela del lavoratore deve essere calibrata sul caso concreto e l’indennità deve avere una funzione dissuasiva.
Il limite fisso e rigido delle sei mensilità, pur richiamando un principio presente nell’art. 8 della Legge 604/1966, si è rivelato sproporzionato rispetto alla necessità di garantire una tutela effettiva e personalizzata del lavoratore. La Consulta, quindi, ha eliminato il limite massimo, lasciando al giudice la possibilità di determinare l’indennità in base ai criteri già previsti dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 (anzianità di servizio, numero dei dipendenti, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti), senza il vincolo del tetto massimo.
La Corte, richiamando la precedente, già citata, sentenza n. 183 del 2022, ha ribadito la sussistenza di un vulnus ai principi costituzionali sopra richiamati sottolineando che la scarsa ampiezza dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità, causata precipuamente dal tetto delle sei mensilità, vanifica l’esigenza di adeguare l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, così compromettendo tanto il congruo ristoro del lavoratore quanto la funzione deterrente del rimedio.
Pur riconoscendo l’ampia discrezionalità del legislatore nella configurazione dei modelli di tutela dei licenziamenti illegittimi, la Corte ha riaffermato che tale potere discrezionale deve conformarsi ai canoni di effettività, adeguatezza e ragionevolezza.
L’imposizione di un tetto massimo insuperabile di sei mensilità, anche per i licenziamenti affetti dalle più gravi forme di illegittimità, comprime eccessivamente l’ammontare dell’indennità, configurandola come una liquidazione legale forfettizzata e standardizzata, inidonea a rispecchiare il danno subito dal lavoratore e a garantirne la dignità.
Diversamente, la Corte ha ritenuto non incostituzionale la previsione del dimezzamento degli importi delle indennità, modulabili all’interno di una forbice già intrinsecamente ampia e flessibile. Tale meccanismo, infatti, consente comunque al giudice di tener conto della specificità della vicenda e di applicare i criteri di determinazione dell’indennità, tra cui le dimensioni dell’attività economica del datore di lavoro, l’anzianità di servizio e il comportamento delle parti.
La sentenza sottolinea l’inerzia legislativa protrattasi per tre anni dalla precedente pronuncia (n. 183 del 2022) e la formulazione dell’odierna questione, che non mira a un intervento altamente manipolativo, bensì alla mera eliminazione della “significativa delimitazione dell’indennità risarcitoria“.
È opportuno qui inserire il riferimento al tentativo, fallito per il mancato raggiungimento del quorum, di un referendum che mirava a modificare proprio il tetto delle indennità.
Il secondo quesito referendario dell’8 e 9 giugno scorso, proponeva infatti l’abrogazione dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”.
Il referendum, pur non avendo superato il quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto, mirava ad ampliare le tutele per i dipendenti di datori di lavoro con meno di 16 addetti, eliminando appunto l’attuale limite massimo di sei mensilità di indennizzo in caso di licenziamento illegittimo.
L’intento dei proponenti era quello di consentire al giudice di riconoscere una tutela adeguata al lavoratore, in considerazione di diversi parametri, senza che vi fosse una definizione preventiva del tetto massimo da parte dell’azienda.
La sentenza n. 118/2025 della Corte costituzionale, seppur con modalità diverse, dà indirettamente ragione ai proponenti di quel referendum, intervenendo direttamente su una questione che l’iniziativa popolare non era riuscita a risolvere per ragioni procedurali legate al quorum.
La Corte ha così agito per colmare una sproporzione o una lacuna nel sistema di tutele, in assenza di un intervento legislativo e a fronte di un tentativo popolare non andato a buon fine.
La sua azione è stata una risposta diretta alla precedente “inammissibilità con monito” della sentenza n. 183/2022, ponendosi come garante dei principi costituzionali in un contesto di inerzia del legislatore e di fallimento di altri strumenti di riforma.
4. La funzione dissuasiva: perché l’assenza del tetto massimo è corretta
Il regime speciale per i piccoli datori di lavoro, con un tetto risarcitorio inferiore rispetto a quello previsto per le imprese di maggiori dimensioni (seppur anch’esso oggetto di interventi della Corte), pur mirando a favorire la flessibilità e la crescita delle piccole imprese, creava di fatto una disparità di trattamento tra lavoratori licenziati in base alla dimensione dell’azienda, a parità di ingiustizia del licenziamento.
La rimozione del tetto massimo tende a mitigare questa discriminazione, garantendo una maggiore equità nella tutela e riconoscendo che il valore della tutela del lavoratore non può essere rigidamente predeterminato da un limite massimo basato sulla dimensione dell’azienda.
È fondamentale comprendere perché l’assenza di un tetto massimo sia una scelta corretta dal punto di vista giuridico e sostanziale:
– in primo luogo, il licenziamento illegittimo costituisce una lesione di un diritto fondamentale del lavoratore, ovvero il diritto alla stabilità del posto di lavoro, ancorato all’art. 4 Cost. che riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. La riparazione di tale lesione non può essere predeterminata in modo rigido e onnicomprensivo, poiché il danno subito dal lavoratore è intrinsecamente variabile e dipende da una pluralità di fattori soggettivi e oggettivi. Un tetto massimo, per sua natura, impedisce di commisurare l’entità del risarcimento alla reale entità del pregiudizio, che può essere significativamente elevata in contesti specifici (ad esempio, per lavoratori con alta specializzazione, difficile ricollocazione o elevate aspettative di carriera).
– In secondo luogo, l’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo non ha solo una funzione compensativa del danno subito dal lavoratore, ma anche una funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro.
Un risarcimento predeterminato e limitato, soprattutto in caso di licenziamenti palesemente illegittimi, rischia di essere percepito dal datore di lavoro come un mero costo fisso e prevedibile dell’attività imprenditoriale, perdendo così la sua efficacia deterrente.
In altre parole, se il costo di un licenziamento illegittimo è fisso e noto a priori, il datore di lavoro potrebbe essere incentivato a licenziare anche in assenza di valide ragioni, qualora il costo del licenziamento sia inferiore al beneficio atteso da tale decisione.
L’assenza di un tetto massimo, invece, introduce un elemento di imprevedibilità che costringe il datore di lavoro a valutare con maggiore attenzione la legittimità del licenziamento, accrescendo il “rischio” economico derivante da una condotta illegittima.
– In terzo luogo, la rimozione del tetto massimo restituisce al giudice il suo ruolo di garante della giustizia nel caso concreto. Il giudice del lavoro, avendo piena conoscenza delle specificità del rapporto di lavoro, delle condizioni delle parti, dell’anzianità di servizio del lavoratore e delle dimensioni dell’attività economica del datore di lavoro, è nella posizione migliore per determinare l’indennità più adeguata. La legislazione, pur fissando dei parametri guida (come quelli previsti dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015), non dovrebbe precludere al giudice la possibilità di andare oltre un limite arbitrario quando la gravità della condotta o l’entità del danno lo richiedano. L’art. 8 della Legge 604/1966, con il suo tetto massimo, era stato concepito in un contesto socio-economico profondamente diverso, in cui le esigenze di tutela e le dinamiche del mercato del lavoro erano differenti, dunque, mantenere quel limite nell’attuale contesto avrebbe significato perpetuare una disarmonia tra la tutela formale e quella sostanziale.
Infine, l’assenza di un tetto massimo contribuisce a superare la percezione di una discriminazione basata sulla dimensione aziendale. Un lavoratore licenziato ingiustamente dovrebbe ricevere una tutela commisurata al danno subito, indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro abbia più o meno di 15 dipendenti.
Sebbene le esigenze delle piccole imprese siano legittime e debbano essere considerate, non possono tradursi in una deminutio della tutela per il lavoratore, soprattutto quando si tratta di riparare un illecito contrattuale.
Ed è per questo che, la sentenza in commento, in questa prospettiva, riequilibra il rapporto tra le esigenze di flessibilità del mercato del lavoro e la irrinunciabile protezione dei diritti fondamentali del lavoratore.
Rilievi conclusivi
La pronuncia Corte costituzionale rappresenta un punto di svolta poiché non solo corregge una distorsione nel sistema delle tutele crescenti, rafforzando i diritti dei lavoratori, ma riafferma con forza il ruolo della Consulta come garante dei principi costituzionali, anche a fronte dell’inerzia del legislatore.
La decisione sottolinea la necessità di un bilanciamento tra le esigenze di flessibilità del mercato del lavoro e la imprescindibile protezione dei diritti fondamentali del lavoratore.
L’abolizione del limite massimo di sei mensilità per le piccole imprese, se da un lato apre a una maggiore discrezionalità giudiziale, dall’altro potrebbe comportare, almeno in una fase transitoria, un aumento dell’incertezza per i datori di lavoro in merito all’entità degli oneri risarcitori in caso di licenziamento illegittimo.
Tuttavia, tale incertezza è controbilanciata dalla maggiore aderenza ai principi di proporzionalità e adeguatezza della tutela, elementi essenziali per un sistema giuridico equo.
Non può certo negare che, con questa pronuncia, la Consulta ha di fatto enfatizzato la centralità della persona del lavoratore e la necessità che la riparazione del danno subito sia effettiva e personalizzata, superando un approccio meramente standardizzato o basato su rigidi automatismi.
La “materia, frutto di interventi normativi stratificati“, come più volte sottolineato dalla stessa Corte, richiederà probabilmente ulteriori riflessioni da parte del legislatore.
Questo monito finale della Corte è di fondamentale importanza, poiché suggerisce al legislatore di prendere in considerazione, per la determinazione dell’indennità risarcitoria, fattori economici oggettivi e misurabili che “possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale, richiamata in precedenza)”. Tali elementi, già riconosciuti dalla legislazione europea e nazionale, potrebbero contribuire a definire un sistema di calcolo dell’indennità che sia più aderente alla reale capacità economica dell’azienda e, al contempo, più equo per il lavoratore.
Sarà interessante osservare se e come il Parlamento deciderà di intervenire per delineare un quadro normativo più coerente e stabile, che integri i principi affermati dalla Corte considerando che, tale intervento, dovrebbe idealmente trovare un equilibrio tra la prevedibilità dei costi per le imprese, la tutela effettiva dei lavoratori e la necessità di un sistema sanzionatorio che sia, al contempo, risarcitorio e dissuasivo.
La Corte costituzionale ha indicato la strada, spetta ora al legislatore raccogliere il monito e tradurlo in una riforma organica e lungimirante, che superi la logica degli interventi puntuali e frammentari, per dare risposte definitive alle problematiche che ancora affliggono il diritto del lavoro italiano, stricto senso inteso. L’auspicio è che, a seguito di questa sentenza, si possa giungere a una disciplina che garantisca una tutela effettiva e non discriminatoria per tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell’impresa, e che al contempo non penalizzi eccessivamente la competitività e la crescita delle piccole e medie imprese, vero motore dell’economia nazionale.