Discriminazione di genere e staff leasing

di Annunziata Staffieri
Considerazioni preliminari
Con la locuzione “staff leasing” o “employee leasing” si è soliti designare la somministrazione a tempo indeterminato di manodopera, un istituto di origine anglosassone, introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico, nel 2003, con la Riforma Biagi (D.Lgs. n. 276/2003) e successivamente abolito dalla Legge n. 247/2009, per poi essere reintrodotto dalla Legge n. 191/2009 (Legge Finanziaria 2010) e infine ritoccato dal Decreto Dignità (D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81).
Fin dalla sua introduzione, tale istituto è stato al centro dell’attenzione della giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, anche sovranazionale, con riferimento sia al requisito della necessaria temporaneità [tant’è che due recenti ordinanze del Tribunale di Milano (Sez. Lavoro, 14 gennaio 2025) e del Tribunale di Reggio Emilia (Sez. Lavoro, 7 novembre 2024) hanno sollevato questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea al fine di vagliare la compatibilità di tale schema rispetto alla normativa europea] che in relazione all’accertamento di condotte discriminatorie poste in essere dall’utilizzatrice nei confronti delle lavoratrici somministrate “in gravidanza” (Per un approfondimento sulle ragioni di rimessione alla Corte di Giustizia, si rimanda a M. Salvagni, Lo staff leasing e il requisito della temporaneità: la parola alla Corte di Giustizia, in Lav. giur., 2025, 4, 390 e ss.).
Si segnala, a tal riguardo, un’interessante sentenza della Corte di Appello di Trento, che alla luce dei recenti approdi della giurisprudenza di merito (Tribunale di Roma, 22 aprile 2021) ha accertato una discriminazione di genere “diretta”, posta in essere nei confronti di una lavoratrice in “staff leasing”, alla quale, era stata interrotta la missione solo perché incinta, in violazione dell’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2015, che riconosce a tale categoria di lavoratrici, a parità di mansioni svolte, le medesime tutele riconosciute alle dipendenti dell’utilizzatrice, ivi compreso il diritto di godere delle tutele previste per la gravidanza e, più in generale, per la maternità e la genitorialità.
I caratteri salienti dello staff leasing
Com’è noto, lo staff leasing, come chiarito dal D.Lgs. n. 276/2003, è “un affitto di manodopera senza limiti di tempo precostituiti”. Pertanto, grazie a tale tipologia contrattuale, un’agenzia di somministrazione autorizzata mette a disposizione, di una azienda utilizzatrice, a tempo indeterminato, uno o più lavoratori o lavoratrici suoi dipendenti, i quali, svolgono per tutta la durata della missione, la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo della utilizzatrice, senza che sussista un rapporto di lavoro diretto.
Tale modello contrattuale si caratterizza pertanto per:
1) la natura tripartita del rapporto, in cui si relazionano i tre soggetti di seguito indicati:
● l’agenzia di somministrazione autorizzata (la c.d. somministratrice), generalista o specialista (sezione I o II dell’Albo Nazionale), che si occupa della ricerca e della selezione del personale, dell’assunzione e del pagamento del/della dipendente, previo rimborso dei costi da parte della utilizzatrice;
● l’azienda utilizzatrice, che si avvale dei servizi resi dalla somministratrice e impartisce ordini e direttive al personale somministrato esercitando il potere direttivo;
● il/la dipendente, che ha un contratto a tempo indeterminato con l’agenzia di somministrazione e che da questa è inviato/a in missione presso l’utilizzatrice svolgendo, pertanto, il proprio lavoro presso quest’ultima;
2) la scissione tra la titolarità del rapporto di lavoro, che resta in capo all’agenzia di somministrazione, e la concreta ed effettiva utilizzazione del/la dipendente, spettante, invece, alla utilizzatrice. Conseguentemente, all’interno di tale istituto si rinvengono due diversi tipi di rapporto contrattuale:
a) un contratto di somministrazione, stipulato tra l’agenzia di somministrazione e l’utilizzatrice, che ha natura meramente commerciale;
b) un contratto di lavoro subordinato, concluso tra l’agenzia di somministrazione e il/la dipendente somministrato/a;
3) la ripartizione dei poteri e degli obblighi datoriali tra utilizzatrice e somministratrice, in particolare:
a) il potere disciplinare resta in capo all’agenzia di somministrazione, alla quale l’utilizzatrice è tenuta a comunicare ogni aspetto che può formare oggetto di contestazione disciplinare;
b) il potere direttivo e organizzativo sono posti in capo alla utilizzatrice considerato che il/la dipendente presta la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo della utilizzatrice;
c) gli obblighi informativi e formativi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ai sensi del T.U. n. 81/2008, sono a carico dell’agenzia di somministrazione, salvo diversa previsione contrattuale che ponga tale obbligo a carico della utilizzatrice;
d) la retribuzione viene corrisposta dalla agenzia di somministrazione e ad essa rimborsata dalla impresa utilizzatrice, inclusi gli oneri previdenziali, così come sono a carico della stessa gli oneri contributivi, assicurativi e assistenziali;
– l’impresa utilizzatrice è obbligata, in solido con l’agenzia di somministrazione, a corrispondere i trattamenti retributivi e a versare i contributi previdenziali, salvo il diritto di rivalsa verso l’agenzia di somministrazione;
e) la responsabilità per i danni arrecati a terzi dal/la dipendente somministrato/a nello svolgimento dell’attività lavorativa ricade sull’impresa utilizzatrice.
4) la durata sine die della missione: a differenza, infatti, del contratto di somministrazione a tempo determinato, lo “staff leasing” è a tempo indeterminato, non essendo previsto alcun limite di durata alla missione svolta dal/la dipendente.
Gravidanza e staff leasing
In ossequio al principio di parità e non discriminazione, i/le dipendenti somministrati/e, hanno diritto per tutta la durata della missione, ai sensi dell’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2015, a un trattamento economico e normativo pari a quello dei/delle dipendenti dell’utilizzatrice, a parità di mansioni svolte, ivi compreso il diritto di godere delle tutele previste per la maternità.
Oltre alla disciplina convenzionale, si applicano a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici, dipendenti o somministrati/e, anche le disposizioni di portata generale, con le quali il legislatore attua la tutela costituzionale di maternità, filiazione e genitorialità.
Nonostante tali tutele, tuttavia, non sono rari i casi di discriminazione attuati nei confronti delle gestanti. A tal uopo, si segnala il decreto del 22 marzo 2022 del Tribunale di Roma con il quale il giudice di prime cure accertava la discriminazione posta in essere da parte di una Compagnia aerea per la mancata assunzione delle lavoratrici in gravidanza, condannando la società al risarcimento del danno da perdita di chance, quantificato in 15 mensilità delle relative retribuzioni (con riferimento a tale arresto, sia consentito rimandare a M. Salvagni, La mancata assunzione di lavoratrici in gravidanza configura una discriminazione: ITA Airways condannata a pagare il risarcimento del danno da perdita di chance anche in funzione dissuasiva, in LPO News, del 13 aprile 2022) nonché la sentenza della Corte di cassazione del 26 febbraio 2021, n. 5476, con la quale i Sommi Giudici hanno considerato discriminatorio concedere il rinnovo di tutti i contratti a termine salvo quello di una lavoratrice in gravidanza.
Diversi sono, in particolare, i casi di discriminazione posti in essere nei confronti delle dipendenti somministrate portati all’attenzione della magistratura del lavoro.
Un caso di discriminazione di genere nella somministrazione di manodopera “a termine” è stato accertato, ad esempio, nel 2021, dal Tribunale di Roma quando una lavoratrice, somministrata presso l’Agenzia Italiana del farmaco, aveva convenuto in giudizio il predetto Ente per aver subito una discriminazione in ragione del suo stato di gravidanza: era stata l’unica, su quarantaquattro dipendenti somministrati a tempo determinato, a non vedersi rinnovata la missione al termine del contratto e ciò solo perché incinta.
Con ordinanza del 22 aprile 2021, il Tribunale capitolino aveva accolto il ricorso proposto dalla lavoratrice e sancita la natura discriminatoria della condotta posta in essere dalla società di somministrazione in quanto il rinnovo contrattuale era stato proposto a tutto il personale somministrato a termine, ad eccezione della ricorrente perché in stato interessante.
Più di recente, nel maggio 2025, un recente caso di discriminazione per gravidanza in danno di una lavoratrice (impiegata, questa volta, a tempo indeterminato, quindi in “staff leasing”, a cui era stata interrotta la missione perché incinta), è stata accertato dalla Corte di Appello di Trento che, con la pronuncia in commento, ha offerto importanti spunti in tema di tutela del personale precario, consolidando un orientamento, nazionale e sovranazionale, sempre più attento alla tutela antidiscriminatoria.
Quattro anni fa, una lavoratrice addetta alla contabilità era stata assunta a tempo indeterminato dall’agenzia di somministrazione e assegnata in missione, presso la società utilizzatrice, fino al 2024.
Successivamente, dopo aver trasmesso il certificato di gravidanza a rischio, la dipendente riceveva da parte della società di somministrazione la comunicazione dell’interruzione della missione a seguito del recesso da parte dell’utilizzatrice dal contratto di “staff leasing”.
La lavoratrice tornava, in tal modo, sotto l’egida dell’agenzia di somministrazione che però non poteva impiegarla in altra attività lavorativa, essendo in quel periodo la dipendente interdetta dal lavoro per gravidanza a rischio; l’agenzia di somministrazione le riconosceva, così, solo l’indennità di disponibilità mensile, pari a un terzo dello stipendio.
A fronte di tali comportamenti discriminatori la lavoratrice, assistita dalla Fiom, dalla NIdiL e dalla CGIL del Trentino, chiedeva di essere riammessa in servizio; la sua richiesta veniva però respinta dalla utilizzatrice, la quale riteneva che la lavoratrice non avesse nulla a pretendere nei suoi confronti in quanto formalmente dipendente di altra azienda, legata all’utilizzatrice da un mero contratto commerciale.
Solo in un secondo momento, dinanzi al Giudice del lavoro, l’utilizzatrice precisava che la decisione di interrompere la missione non era in alcun modo legata alla condizione personale della lavoratrice, ma soltanto la conseguenza di una ristrutturazione aziendale; pertanto, la concomitanza con la gravidanza era una mera coincidenza, così come era da considerare tale il mancato rinnovo del contratto ad una collega della ricorrente, anch’essa in stato interessante in quello stesso periodo.
Alla luce di tali considerazioni, il giudice del lavoro di Rovereto respingeva, in primo grado, il ricorso proposto dalla lavoratrice interinale; tuttavia, in secondo grado, la Corte d’Appello di Trento riformava tale decisone deducendo la sussistenza, nel caso di specie, di una discriminazione di genere in danno della dipendente in “staff leasing”, vietata dall’art. 25 del D.Lgs. n. 198/2008, recante il Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna.
Tale corpus normativo, più volte novellato nel corso degli anni e che ha avuto il merito di riunire e riordinare, in un unico testo, tutta la normativa antidiscriminatoria pregressa volta a debellare le discriminazioni tra i due sessi, all’art. 25, così come modificato dalla Legge n. 162/2021 (c.d. Legge “Gribaudo”, prevede “il divieto di discriminazioni dirette e discriminazioni indirette: con le prime si intendono tutte quelle disposizioni, criteri, prassi, atti, patti o comportamenti esplicitamente pregiudizievoli per la lavoratrice o il lavoratore in ragione del genere e che, comunque, determinino un trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o lavoratore in situazione analoga (art. 25, comma 1, del Codice), mentre con le seconde ci si riferisce a disposizioni, criteri, prassi, atti, patti o comportamenti che, seppur apparentemente neutri, pongono la lavoratrice o il lavoratore in una situazione di particolare svantaggio, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa e purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (art. 25, comma 2 del Codice)”.
Il Collegio ricorda, altresì che, ai sensi dell’art. 2-bis del D.Lgs. n. 198/2006, così come modificato dalla Legge n. 162/2021, “costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:
a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;
b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;
c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e do progressione nella carriera.
Le discriminazioni vietate, nei confronti delle lavoratrici, possono realizzarsi anche mediante “criteri aggiuntivi” rispetto alla semplice appartenenza al genere femminile, con la conseguenza che devono essere valutati come motivi discriminatori anche lo stato di gravidanza, lo stato matrimoniale e il puerperio.
L’attenzione riservata al fattore di rischio della maternità ha portato il legislatore nazionale ad approvare il D.Lgs. n. 5/2010, che ha novellato il D.Lgs. n. 151/2001, recante il Testo Unico della maternità e della paternità, che nella sua versione vigente, all’art. 3 , dispone testualmente “è vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, con particolare riguardo ad ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità o dell’esercizio dei relativi diritti”.
Alla luce di tale impianto normativo, l’interruzione, nel caso di specie, della missione della lavoratrice presso l’utilizzatrice, avvenuta in condizione di gravidanza e proprio a causa di tale stato, veniva classificata dal Collegio come condotta discriminatoria posta in essere dalla utilizzatrice nei confronti della somministrata.
Chiarisce, al tal riguardo, il Collegio che “nel caso in esame, sussiste il fattore di rischio determinato dallo stato di gravidanza dell’appellante, comprovato dal certificato medico di visita specialistica dell’Apss del 06.09.2021, prodotto come doc. 6, nel quale risulta la data presunta del parto al 06.03.2022. Vi sono, inoltre, elementi sintomatici, dai quale dedurre l’esistenza di una discriminazione diretta a causa dello stato di gravidanza. Innanzitutto è significativo il modus agendi dell’appellata: la tempestività e la reiterazione delle cessazioni delle missioni, ha riguardato, nello stesso breve periodo, due lavoratrici somministrate, entrambe in gravidanza. Più precisamente, il recesso dal contratto di staff leasing è avvenuto in data 21.09.2022, poco dopo l’inizio dell’astensione per gravidanza dell’appellante. Circa due settimane prima, analoga sorte era toccata alla lavoratrice (…) (dal 01.09.2020 in missione presso l’utilizzatrice anch’ella a tempo indeterminato); dieci giorni dopo la comunicazione dello stato di gravidanza (avvenuta in data 19.08.2021), le è stata notificata in data 28.08.2021, (doc. 17) l’interruzione immediata della somministrazione a seguito del recesso dell’utilizzatrice”.
Dagli atti di causa è emerso “che in quel periodo vi era stato un ritardo nell’attività di fatturazione e che per far fronte a questo sarebbe stato necessario necessario implementare la forza lavoro, anche con l’assunzione di lavoratori interinali, con possibilità di dismetterli nel periodo di settembre”.
Nonostante ciò, tra agosto e settembre, l’utilizzatrice ha disposto la cessazione del contratto con l’appellante e con la collega, entrambe in gravidanza: nessun altro lavoratore, anche assegnato in missione medio tempore o assunto, risulta cessato o licenziato in quello stesso periodo.
Tra l’altro, l’utilizzatrice non ha neppure dimostrato per quale motivo l’appellante fosse improvvisamente divenuta superflua, in concomitanza con la sua comunicazione di gravidanza a rischio; prova che, ai sensi dell’art. 40 del D.Lgs. n. 198/2006, è a suo carico.
Sotto il profilo dell’onere della prova, il Collegio rammenta infatti che “l’art. 40 CPO prevede che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.
La norma in esame, come ha più volte ribadito la Corte di Cassazione, (v. da ultimo Ord. 3.2.2023 n.3361): “(…) stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta solo a dimostrare un’ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione discriminatoria, restando per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee ad escluderle, per precisione gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta”. Analogo principio è stato affermato in relazione all’interpretazione dell’art.19 della Direttiva CE n. 2006/54 dalla Corte di Giustizia, la quale ha evidenziato che “spetta alla lavoratrice che si ritenga lesa dall’inosservanza , nei propri confronti, del principio della parità di trattamento dimostrare, dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi a qualsiasi altro organo competente, fatti od elementi di prova in base ai quali si possa presumere che c sia stata discriminazione diretta o indiretta (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10, EU: C:2011:506, punto 29). E’ solo nel caso in cui la lavoratrice interessata abbia provato tali fatti od elementi di prova che si verifica un’inversione dell’onere della prova e che spetta alla controparte dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10; EU:C:2011:506, punto 30)” (Corte di Giustizia 19.10.2017 in causa C- 531/15 Otero Ramos)”.
In considerazione di ciò, il Collegio ha stigmatizzato il comportamento discriminatorio dell’appellata in quanto l’ unico criterio adottato per l’individuazione della lavoratrice interinale da estromettere dall’organizzazione si è rivelato essere la condizione personale della dipendente, cioè lo speciale fattore di rischio di cui la stessa era ritenuta portatrice, a differenza di tutti gli altri lavoratori e lavoratrici, dipendenti o interinali, che avevano stabilizzato o comunque proseguito il rapporto di lavoro.
Nel caso di specie, l’appellata era chiamata a dimostrare non tanto la “riduzione” del personale o la presunta “riorganizzazione” aziendale, quanto, piuttosto, la legittimità dell’individuazione dell’appellante, in stato di gravidanza, invece di un altro soggetto della platea dei dipendenti in forza presso l’utilizzatrice; onere della prova che, nel caso di specie, non è stato assolto.
Inoltre, l’appellata non ha neppure dimostrato di aver riservato all’appellante, in occasione dell’allegata riorganizzazione, il medesimo trattamento previsto per gli/le altri/e dipendenti, asseritamente da trasferire o ricollocati/e.
Concludendo, nel caso in esame è stata accertata la violazione da parte dell’utilizzatrice non solo dell’art. 3 D.Lgs. n. 151/2001 e dell’art. 25, commi 1 e 2-bis, D.Lgs. n. 198/2006, ma anche del principio di parità di trattamento economico previsto dal legislatore (art. 35 D.Lgs. n. 81/2015) e recepito dal CCNL delle Agenzie di somministrazione del lavoro (2019) che all’art. 15, comma 2.2. stabilisce quanto segue: “2.2. Alle lavoratrici assunte a tempo indeterminato ed in maternità anticipata e obbligatoria è garantita la piena parificazione al trattamento previsto dalla contrattazione collettiva applicata dall’utilizzatore anche nelle ipotesi in cui l’astensione prosegua oltre il termine della missione, qualora prevista al 100%, fino al termine del periodo di congedo obbligatorio e secondo la retribuzione precedentemente percepita”.
Riepilogando, secondo quanto stabilito dall’art. 35 D.Lgs. n. 81/2015, il principio di parità, comporta, in primo luogo, l’applicazione ai/alle somministrati/e del medesimo CCNL, adottato dall’utilizzatrice per i/le propri/e dipendenti.
Oltre alla disciplina convenzionale, per tutti i lavoratori e per tutte le lavoratrici, dipendenti o somministrati/e, valgono anche le disposizioni di portata generale, con le quali il legislatore attua la tutela costituzionale di maternità, filiazione e genitorialità non tollerando alcuna deroga in ragione della natura del rapporto. Tale considerazione è richiamata, tra l’altro, nell’art. 4 dello stesso CCNL 5.02.2021 Metalmeccanica e Industria.
Pertanto, considerato che la missione dell’appellante presso l’utilizzatrice era a tempo indeterminato, la natura discriminatoria del recesso, che rende illegittimo l’atto posto in essere dalla utilizzatrice, comporta la declaratoria di nullità del medesimo, con le conseguenze risarcitorie patrimoniali e non patrimoniali.
In ordine alla quantificazione del danno patrimoniale, il trattamento retributivo e indennitario al quale aveva diritto la lavoratrice si evince dalle disposizioni di legge poste a tutela della gravidanza e maternità, nonché dai CCNL di riferimento e dall’art. 4 CCNL Imprese Metalmeccaniche: “esse riguardano, tutta la platea dei lavoratori dipendenti e somministrati, portatori della condizione legittimante, delimitano temporalmente l’estensione delle tutele e dei diritti anche economici e conseguentemente la misura del danno patrimoniale risarcibile”.
Può dirsi, perciò, sussistente il diritto dell’appellante al miglior trattamento spettante ai/alle dipendenti della utilizzatrice “fino al compimento di un anno di vita del/della figlio/a minore, secondo la disciplina agli stessi applicata e riconoscibile anche alla lavoratrice se la missione avesse avuto corso regolare”.
Si tratta, in sintesi, del pagamento, a titolo risarcitorio, della differenza tra quanto spettante, ai sensi del CCNL applicato dalla utilizzatrice, ai propri lavoratori e lavoratrici e quanto percepito in concreto dall’appellante successivamente alla cessazione della missione.
A fronte del comportamento discriminatorio lesivo della dignità della dipendente e della sua professionalità, la Corte ha inoltre riconosciuto alla vittima anche il danno non patrimoniale ex art. 28, D.Lgs. n. 150/2011, quantificato, in via equitativa, nella somma complessiva di 5.000,00 euro, oltre accessori dalla domanda al saldo effettivo.
Rilievi conclusivi
La decisione della Corte d’Appello di Trento costituisce un importante precedente in materia antidiscriminatoria di genere: tale pronuncia garantisce una maggior tutela alle gestanti impiegate in staff leasing le quali, anche a causa di stereotipi di genere, vengono spesso a trovarsi in una situazione di precarietà e di emarginazione lavorativa.
In tale contesto, la Corte d’Appello trentina ribadisce, con la decisione in commento, un principio di civiltà giuridica: le gestanti in staff leasing non sono lavoratrici di serie B rispetto alle gestanti della utilizzatrice.
In conclusione, la somministrazione a tempo indeterminato è una tipologia contrattuale flessibile, ma non precaria, che garantisce la parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici in somministrazione e i/le dipendenti diretti dell’azienda e che è tutelata, grazie anche al nuovo rinnovo CCNL somministrazione, da solide garanzie in termini di gravidanza, filiazione e maternità.
Tale pronuncia costituisce, dunque, un punto di svolta per la tutela delle gestanti in somministrazione, garantendo loro maggiori opportunità di continuità occupazionale e riducendo, conseguentemente, il rischio di discriminazioni legate alla gravidanza.