Sulla nozione di giusta retribuzione, oggi

Download articolo (PDF)

In dottrina si è più che autorevolmente affermato come “la retribuzione è il punto più importante per la disciplina del rapporto di lavoro e, come tale, quello per cui prima ed essenzialmente si è reso necessario e storicamente si è affermato quel caratteristico strumento di composizione del conflitto d’interessi di categoria che è il contratto collettivo” (così, F. Santoro Passarelli, Nozioni di Diritto del Lavoro, 1954, Napoli, p. 160).

Peraltro, la natura negoziale del contratto collettivo – sostanziandosi esso in un accordo tra due o più parti, basato su un meccanismo di reciproche concessioni – è il motivo per cui, sovente, lo stesso può rivelarsi uno strumento imperfetto ovvero inefficace ai fini della determinazione di una retribuzione che sia proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto nonché sufficiente ad assicurare alla lavoratrice/al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.), a seconda dell’evolversi del contesto economico di riferimento.

La proporzionalità e la sufficienza costituiscono, infatti, due canoni tra loro concorrenti, sì che l’esistenza dell’uno non può pregiudicare l’esame dell’altro. Sul canone della sufficienza si è, poi, concentrata – con particolare riferimento al settore dei Servizi Fiduciari – l’attenzione della giurisprudenza, anche di legittimità.

In particolare e da ultimo, la Suprema Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi circa il rispetto del canone della sufficienza con riferimento al trattamento retributivo approntato dal CCNL Servizi Fiduciari (artt. 23 e ss.), ha ritenuto di dover cassare con rinvio la pronunzia della Corte di Appello di Torino che aveva rigettato le pretese del lavoratore ricorrente volte a ottenere l’adeguamento della propria retribuzione sulla scorta di quello previsto dal CCNL Proprietari di Fabbricati, o altri contratti collettivi che contemplano mansioni analoghe (Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 27711/2023).

E ciò proprio sulla base del fatto che il trattamento economico a lui concretamente erogato non sarebbe stato adeguatamente valutato sotto il profilo della “sufficienza” e idoneità a garantirgli una vita dignitosa.

Quello espresso dal Supremo Collegio, sia chiaro, non costituisce un giudizio che qualunque Giudice è chiamato ad esprimere in termini di “assolutezza”, bensì dovrà sempre essere ponderato sulla scorta delle allegazioni offerte dal singolo ricorrente che contesta la “giustezza” della propria retribuzione e che possono consistere in una serie di “parametri di raffronto” – in aggiunta alla puntuale allegazione delle “prestazioni lavorative in concreto effettuate” – tra cui “il valore della soglia di povertà” o, ancora, “l’importo della Naspi o della CIG, la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità e l’importo del reddito di cittadinanza”, ancorché tali misure rispondano all’esigenza di garantire una certa “sopravvivenza” al percettore, cosa ben diversa dal percepire un emolumento che sia connotato da “sufficienza e proporzionalità”.

Ma anche a fronte di tali allegazioni, questo giudizio resta non facile poiché, come rammenta e pure ammonisce la Suprema Corte, il Giudicante “difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche o sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali”, venendo così inibito un suo ingresso – per così dire – ‘a gamba tesa’ nella contrattazione collettiva (salve, s’intende, le ipotesi di contrattazione dubbia o frutto di un sindacalismo giallo).

Allo stesso tempo, però, i Giudici di legittimità non possono fare a meno di rilevare come le predette esigenze economiche e politiche si siano assottigliate sempre di più nel corso del tempo, atteso che – stante la presenza di ben 946 contratti collettivi – i perimetri negoziali si sono ormai frantumati e più contratti collettivi – posta la non invocabilità dell’ormai abrogato principio della categoria merceologica ex art. 2070 c.c. – tendono a disciplinare mansioni del tutto affini tra loro, se non addirittura identiche.

Ed è in questa fattispecie che si annoverano i c.d. “servizi fiduciari” (i.e.: portierato, custodia e control room), la cui disciplina è contesa tanto dalla Sezione Servizi Fiduciari del CCNL Vigilanza Privata, quanto dal CCNL Proprietari di Fabbricati e dal CCNL Multiservizi (solo per citarne alcuni). Ciascuno di questi contratti collettivi, ancorché stipulato da Sigle Sindacali comparativamente più rappresentative, prevede, però, un trattamento retributivo sempre diverso; nel caso esaminato dai Giudici di legittimità, il susseguirsi di tali contratti collettivi ha fatto sì che il lavoratore ricorrente – adibito in regime di appalto – percepisse, in seguito a ciascun cambio di gestione, un trattamento retributivo via via sempre minore (da ultimo, quello del CCNL Vigilanza Privata – Sezione Servizi Fiduciari), pur essendo egli chiamato a svolgere sempre le medesime mansioni.

Ma, così inquadrata la fattispecie concreta, il problema sembrerebbe incentrato sulla configurabilità di un salario – per così dire – “qualificante” rispetto alla tipologia e al contenuto delle mansioni svolte. Tale tesi, pure sostenuta dalla datrice di lavoro contro ricorrente, non ha però trovato appigli in seno al Supremo Collegio giacché, così ragionando, si rischia di soffermare l’analisi solo su uno dei due canoni dianzi ripercorsi, quello della proporzionalità, tralasciando del tutto la funzione insita a ciascuna retribuzione, ossia soddisfare i bisogni essenziali dell’individuo e della propria famiglia.

Anche tale funzione o, rectius, l’incapacità di poterla soddisfare con quanto garantito dalla contrattazione collettiva applicata deve costituire oggetto di puntuale allegazione da parte del ricorrente, in uno con i parametri dianzi ripercorsi.

Forse, è proprio tale mancanza di allegazioni che ha fatto sì che, in altro ambito (ispettivo-accertativo) e da parte di altri Giudici (amministrativi) sia stato sconfessato il tentativo, perorato nei confronti di una datrice di lavoro operante nel settore dei servizi fiduciari, dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Como-Lecco di disporre sic et simpliciter l’applicazione del trattamento retributivo del CCNL Multiservizi in luogo del CCNL Vigilanza Privata – Sezione Servizi Fiduciari (T.A.R. Lombardia, Sez. Quarta, sentenza n. 2046/2023).

Inquadrato il problema resta, comunque, la necessità di come risolverlo, se tramite intervento legislativo, ovvero tramite il perdurante ricorso alla c.d. “equità giudiziale ex art. 2099 c.c.”. Con l’ulteriore precisazione che un intervento legislativo – pure oggi sollecitato da più correnti politiche – potrebbe anche non avere ad oggetto l’introduzione nuda e cruda di una tariffa oraria universale, limitandosi a incentivare una contrattazione collettiva che sia effettivamente leader o, meglio, rappresentativa ex art. 39, comma 4, Cost.

Una risposta univoca non v’è, a maggior ragione alla luce degli esiti dell’istruttoria compiuta dal CNEL, su istanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, in risposta a una richiesta di osservazioni e proposte in materia di salario minimo (apri il documento).

In tale documento, il CNEL evidenzia come eventuali incongruità o insufficienze del sistema salariale italiano sono da attribuirsi ora a fattori specifici di ciascun settore (ad es.: numero delle giornate retribuite, che nel settore di alloggio e ristorazione sono pari a 143, a fronte di una media nazionale di 235), ora a istituti tipici di una contrattazione di settore e non di un’altra (su tutti, la quattordicesima), ora sul fatto che le analogie tra i vari settori merceologici sono ostacolate dal fatto che la contrattazione salariale italiana non è concepita su base oraria.

A ciò si aggiunga la tendenza degli attori industriali a contrattare sempre di più su elementi incentivanti o di welfare, di gran lunga prediletti rispetto al minimo retributivo che – eccezion fatta per alcuni, in verità pochi, meccanismi di adeguamento contrattuale o di “vacanza” – tende a restare sempre uguale o, comunque, a subire poche variazioni.

Senza dimenticare, dulcis in fundo, che un intervento legislativo, per quanto penetrante (ossia in grado di determinare anche un importo orario da corrispondere a ciascun lavoratore) dovrà sempre fare i conti con altre, previgenti, disposizioni di legge in grado di derogare al salario minimo.

Tra questi si annovera anche l’art. 6, comma 1, lett. e), Legge n. 142/2001, che attribuisce all’assemblea delle cooperative datrici di lavoro la “facoltà di deliberare, nell’ambito del piano di crisi aziendale di cui alla lettera d), forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori, alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e capacità finanziarie”. Apporto che ben può consistere in una rinunzia preventiva a introitare una parte del compenso.

Ed è proprio sulla scorta di un siffatto, presunto, stato di crisi che una delle cooperative più in vista nel settore dei servizi fiduciari ha adottato, sin dal 2007, alcune delibere volutamente mirate a ridurre – tra i vari istituti, anche – lo straordinario da corrispondere ai propri dipendenti, riducendolo, almeno sino a tutto il 2013, a ben € 0,80 (euro ottanta centesimi), senza che alcun Istituto o Ente abbia mai esercitato alcuna forma di controllo su tale forma di “apporto”. Ciò, almeno, fino a quando non è intervenuto il Tribunale Penale di Milano che, rilevate le condizioni di sostanziale sfruttamento dei dipendenti della cooperativa cagionate dalle condizioni retributive in essere, ne ha disposto il c.d. “controllo giudiziario”, onde garantire il superamento di questa situazione. 

Il tema in commento viene lasciato volutamente aperto, con il solo auspicio che visioni parcellizzate e atomistiche di tali “questioni salariali” (il plurale è da preferirsi al singolare, stante la complessità e le molteplici sfaccettature) cedano il passo a un approccio più sistematico, unico veicolo con cui validamente perorare ogni soluzione del caso, qualunque essa sia.