Sui concetti di “unità aziendale” e “fungibilità” nei licenziamenti collettivi

Nell’ultimo discorso tenuto dinnanzi ai Senatori della Repubblica al fine di acquisire la famosa “fiducia”, il Presidente del Consiglio, Prof. Giuseppe Conte, ha lasciato intendere che il blocco dei licenziamenti cesserà, ad ogni effetto, in data 31 marzo 2021 e che, successivamente a tale data, occorrerà procedere con una riforma (l’ennesima) del mercato del lavoro.

Nel frattempo, però, che questa riforma prenda piede, molte aziende saranno costrette – giocoforza – a riorganizzare la propria forza lavoro ricorrendo anche all’istituto del licenziamento collettivo. In quest’ottica, pertanto, potrebbe essere importante esaminare due recenti pronunce rese dai Giudici di legittimità sul punto (consultabili nelle nostre banche dati).

In particolare, con una prima pronuncia (Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 14 ottobre 2020, n. 22217), la Suprema Corte ha ribadito l’insegnamento secondo cui la scelta dei lavoratori da licenziare – pur dovendo essere sempre ponderata sulla base dei criteri (i) dell’anzianità di servizio, (ii) dei carichi di famiglia e (iii) delle esigenze organizzative – ben può essere ristretta ad una sola unità aziendale, senza alcuna necessità di estenderla all’intera realtà imprenditoriale.

In questa ipotesi, tuttavia, è richiesto che le “esigenze tecnico-produttive ed organizzative che hanno dato luogo alla riduzione del personale” siano specificamente calibrate sull’unità aziendale interessata dalla procedura di licenziamento collettivo. Esigenze che, ad avviso del Supremo Collegio, non ricorrono “ove i lavoratori da licenziare siano idonei – per acquisite esperienze e per pregresso e frequente svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda con positivi risultati – ad occupare le posizioni di colleghi addetti ad altri reparti o sedi”.

Ed invece, con il secondo arresto giurisprudenziale (Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 16 dicembre 2020, n. 28816), la Suprema Corte è tornata a pronunziarsi sul criterio della c.d. “fungibilità”, da intendersi quale possesso, da parte del lavoratore individuato come licenziabile, di una “professionalità fungibile”, ossia interscambiabile con quella di altri colleghi individuati, al contrario, come non-licenziabili.

In tal caso, rammenta il Supremo Collegio “la sua comparazione [n.d.r.: del lavoratore da licenziare] può non essere limitata a quella degli appartenenti allo stesso reparto o settore interessato dalla riduzione … poiché la fungibilità rivela l’idoneità del lavoratore d occupare posizioni lavorative di reparti diversi, in cui lo stesso si è trovato ad operare precedentemente in azienda”.

E così, se il primo orientamento giurisprudenziale sopra richiamato afferma “la regola” per cui la platea dei lavoratori da licenziare può essere limitata anche ad un singolo reparto e/o unità aziendale, il secondo orientamento giurisprudenziale citato sancisce, invece, quella che potremmo definire come “l’eccezione” alla suddetta regola, consistente nel possesso di una professionalità “fungibile” da parte del lavoratore che, come visto, consente a quest’ultimo di essere “ripescato” e collocato anche in altri reparti e/o unità produttive.

Per tale motivo, l’onere di provare una siffatta fungibilità graverà sempre sul lavoratore e mai sul datore di lavoro. Quest’ultimo, dal proprio canto, deve ponderare bene i confini e le modalità con cui intende procedere al licenziamento collettivo, posto che un’immotivata restrizione della platea dei lavoratori, come anche l’omessa valutazione della “fungibilità” anche solo di uno di loro, rende illegittimo il licenziamento, con conseguente reintegrazione in servizio del lavoratore.

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