Vaccinazione anti Covid-19: la pretesa datoriale di imporre la vaccinazione sui dipendenti è legittima?

L’Agenzia Europea per i medicinali e l’AIFA hanno autorizzato due vaccini anti Covid-19 a m-RNA, la cui campagna di distribuzione ha sollevato un dibattito che riguarda i rapporti di lavoro.
Si tenga presente che la problematica oggetto di discussione è solo parzialmente attuale, considerando che, per ora, la campagna di vaccinazione ha interessato per la stragrande maggioranza gli operatori sanitari, oltre agli anziani, soggetti che non sono nel mercato del lavoro.
Il dibattito aperto tra esperti e studiosi del diritto del lavoro riguarda il rapporto tra poteri datoriali e obbligo di vaccinazione: più precisamente, i datori di lavoro possono imporre sui propri dipendenti la vaccinazione? Quali le conseguenze nell’ipotesi di rifiuto?
È opportuno premettere che le vaccinazioni, al pari di qualsiasi altro trattamento sanitario, sono coperte dalla riserva di legge, ex artt. 32 e 117, comma 3, Cost..
In particolare, l’art. 32, comma 2, Cost. prevede che sono obbligatori solo i trattamenti sanitari resi tali dalla legge.
Al momento, non v’è una legge che prevede la vaccinazione contro il Covid-19 come obbligatoria, come pure, invece, è previsto per altre malattie (si pensi, ad esempio, all’epatite virale B).
A tal proposito, peraltro, occorre tener conto che il Ministro della salute, nella informativa al Senato dello scorso 2 dicembre, ha comunicato che “al momento non è intenzione del governo di sporre l’obbligatorietà della vaccinazione. Nel corso della campagna valuteremo l’adesione dei cittadini. Il nostro obiettivo è, senza dubbio, raggiungere l’immunità di gregge”.
Sulla legittimità della richiesta del datore di lavoro di vaccinazione dei propri dipendenti, sono state avanzate diverse tesi.
Ebbene, secondo alcuni studiosi, la vaccinazione sarebbe da considerarsi alla stregua di qualsiasi altra misura di sicurezza, che sarebbe possibile per il datore di lavoro imporre ai propri dipendenti.
Tale pretesa si fonderebbe sull’art. 2087 del Codice civile, ovvero sull’art. 20 del Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. 81/2008, T.U.) o, ancora, sull’art. 279 del medesimo T.U..
Quanto all’art. 2087 del Codice civile, esso impone all’impresa di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”: ne discenderebbe, secondo questa prima tesi, il diritto-dovere dell’imprenditore di richiedere ai propri dipendenti, all’esito della valutazione del rischio specifico di contagio presso la propria azienda, di vaccinarsi.
Ed ancora, la pretesa datoriale potrebbe altresì fondarsi sull’art. 20 del T.U., che prevede l’obbligo per il lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.
Da questa norma, si ricaverebbe l’obbligo del lavoratore di adempiere alle direttive sulla sicurezza imposte dal datore di lavoro, pur quando esse non siano, a monte, previste dalla legge.
Ed infine, l’art. 279 T.U., nell’ambito della sorveglianza sanitaria, prevede che “il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente; b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42”.
Le procedure di cui all’art. 42 richiamano l’obbligo del datore di lavoro di attuare le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, di adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
In quest’ultima prospettiva si è ritenuto che l’art. 279 del T.U., sebbene si riferisca al rischio di infezione derivante da un agente biologico presente nella lavorazione, imporrebbe sull’imprenditore l’obbligo di prevenire il rischio di infezione derivante da un virus particolarmente virulento, quale è il Covid-19, sulla base delle indicazioni del medico competente.
A fianco a questo primo indirizzo, se ne è sviluppato un altro, che – di contro – ritiene che, in assenza di una legge che renda obbligatoria la vaccinazione per la comunità, la pretesa datoriale non sarebbe fondata.
A tal fine occorrerebbe considerare sia il “valore” del silenzio del Legislatore sull’obbligo di vaccinazione da Covid-19, sia l’art. 29-bis del Decreto Legge n. 40/2020, che obbliga i datori di lavoro al rispetto delle misure individuate nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto al Covid-19 e alle altre linee guida previste dalla legge.
Una posizione intermedia è sostenuta da coloro che, pur non trascurando che al momento la vaccinazione da Covid-19 non è obbligatoria, sottolineano la necessità di distinguere caso per caso, sulla base della attività svolta e delle conseguenze, anche nei confronti dei terzi, che dalla mancata vaccinazione discenderebbero. Ci si riferisce, in particolare, agli ambienti sanitari e alle RSA, in cui oggetto della prestazione lavorativa è, per l’appunto, la tutela della salute degli assistiti.
La posizione intermedia è stata, poi, ulteriormente declinata nel senso che, in presenza di alcuni presupposti, potrebbe corrispondere la legittimità della pretesa datoriale: ad esempio, la vaccinazione potrebbe essere ricondotta al codice deontologico del personale medico-sanitario.
Queste, in sintesi, le posizioni sulla legittimità della pretesa datoriale di vaccinazione dei propri dipendenti.
Rimane, allora, da verificare a quali conseguenze porterebbe l’eventuale rifiuto del lavoratore.
Se si accoglie la prospettiva secondo cui il datore di lavoro può imporre la vaccinazione ai dipendenti, al pari di una misura per la tutela della salute e sicurezza nell’ambiente di lavoro, si potrebbe giungere ad affermare che il rifiuto alla vaccinazione integrerebbe una giusta causa di licenziamento. Questa posizione viene “stemperata” perfino da chi l’ha pure fortemente sostenuta: infatti, si è detto, il dibattito sociale e politico relativo all’obbligo delle vaccinazioni in generale, e a quello della vaccinazione contro il Covid-19 in particolare, potrebbe incidere sull’elemento soggettivo indispensabile per il configurarsi della mancanza disciplinare grave.
In alternativa, allora, si potrà sospendere il rapporto di lavoro, senza obbligo retributivo, ovvero, in ultima istanza, procedere alla intimazione del licenziamento per motivo oggettivo.
Diversamente, se si accoglie la tesi fondata sull’art. 279 T.U., a fronte della mancata vaccinazione, il medico competente potrebbe esprimere un giudizio di idoneità parziale o di inidoneità temporanea, con conseguente adibizione da parte del datore di lavoro a mansioni compatibili con la mancata vaccinazione, ove possibile. Qualora ciò non fosse possibile, si arriverebbe al licenziamento per inidoneità alla mansione.
D’altronde, il mutamento delle mansioni, con quelle compatibili con la scelta di non vaccinarsi, è la strada che ritiene percorribile chi ha sposato la tesi “intermedia”, fondata sulla distinzione caso per caso.
Infine, sarebbe possibile configurare il rifiuto del lavoratore (seppur legittimo) alla vaccinazione come una impossibilità sopravvenuta di rendere temporaneamente la prestazione, in relazione alle circostanze del caso concreto: seguendo questo ragionamento, si potrebbe arrivare alla intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo solo ove la perdurante impossibilità di rendere la prestazione la renda inutile per il datore di lavoro.