Tutela della dignità e della professionalità del lavoratore e risarcimento del danno

Tribunale di Tivoli, sentenza 8 ottobre 2024, n. 1442 – Est. Di Pietro

di Francesco Andretta

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Alcune considerazioni preliminari sul danno non patrimoniale.
Le “sentenze di San Martino”, ovvero le sentenze “gemelle” delle SS.UU. sul danno biologico (nn. 26972 e 26975/2008) ci avevano insegnato che il danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) è unitario e va risarcito come tale. Le ricorrenti definizioni dei “tipi” di danno non patrimoniale (morale, biologico ed esistenziale) hanno valenza meramente descrittiva. Inoltre, il danno morale, ovvero la sofferenza psichica di carattere interiore (patema d’animo o c.d. “pretium doloris”) va risarcito solo come conseguenza della commissione di un reato (ex art. 185 c.p.). Tuttavia, non va liquidato nel caso sia risarcito il danno biologico, ovvero la menomazione dell’integrità psico-fisica della persona (accertabile in sede medico-legale), nel quale caso il primo resta assorbito dal secondo (altrimenti si avrebbe una duplicazione delle voci di danno). Infine il danno esistenziale, ovvero ogni pregiudizio avente “natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile” che l’illecito “provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”, dimostrabile “attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si stanno adottando se non si fosse verificato l’evento dannoso”, va risarcito solo nell’ipotesi in cui vengono in rilievo interessi di rango costituzionale.

L’evoluzione giurisprudenziale in tema di danno morale.
Con la sentenza del 19 febbraio – 14 maggio 2014, n. 10524, la Terza Sezione della S.C. ha rimesso in discussione i suesposti principi dettati dalle SS.UU. stabilendo che “…il danno morale configura una autonoma ipotesi di danno non patrimoniale, risarcibile al verificarsi di determinati presupposti, dotato di piena autonomia ontologica rispetto al danno biologico, per cui la specifica richiesta di quest’ultimo non può essere interpretata come riferibile anche al primo (Cass., 6 luglio 2006, n. 1535823 del 2024)”.

La sentenza si innesta nel solco già tracciato dalla più recente giurisprudenza della III Sezione della Suprema Corte di Cassazione, la quale aveva già avuto modo di stabilire, in un procedimento avente ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti da morte di un congiunto (giungendo a riconoscere la risarcibilità del danno esistenziale tanatologico in via equitativa ex art 1226 c.c.), che la diversità ontologica delle voci di danno (biologico-morale-esistenziale) “di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale impone che, in ossequio al principio (dalle Sezioni Unite del 2008 assunto ad assioma) della integralità del risarcimento dei danni nello specifico caso concreto subiti dal danno (o dal creditore) in conseguenza del fatto illecito extracontrattuale (ovvero dell’inadempimento delle obbligazioni), essi, in quanto sussistenti e provati, vengono tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro (v., da ultimo, Cass., 23/4/2013, N. 9770; Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 9/5/2011, n. 10108)” (cfr. anche Cass. civ., Sez. III, sentenza del 23.01.2014, n. 1361).

La sentenza n. 1442/2024 del Tribunale di Tivoli: il risarcimento del danno per la lesione della dignità del lavoratore.
La sentenza n. 1442/2024, pubblicata il 08/10/2024 del Tribunale di Tivoli, che qui si commenta, si colloca in tale solco. Il lavoratore straniero, bracciante agricolo, oltre a chiedere il riconoscimento della regolarizzazione del proprio rapporto di lavoro (privo di formale inquadramento) e le differenze retributive, cagionate anche da un orario di lavoro massacrante (quasi da apparente sfruttamento del lavoro ex art 603-bis c.p.) di nove ore al giorno per ogni giorno dell’intera settimana e per nove mesi circa, deduceva “di aver prestato la propria attività lavorativa in un contesto degradante, caratterizzato da ambienti di lavoro con igiene precaria e da continui insulti, anche a sfondo razziale, rivolti nei suoi confronti” e chiedeva “pertanto la condanna della parte convenuta al ristoro dei pregiudizi alla dignità lavorativa, all’onore ed alla sfera morale derivanti dal trattamento mortificante subito.”.

Espletata l’istruttoria, risultata positiva alla declaratoria dell’effettivo attestarsi di un lavoro subordinato e dei tempi di lavoro, dalla stessa “è emerso che effettivamente vi sono stati, in costanza di rapporto, atti datoriali idonei a pregiudicare la dignità personale del lavoratore” e sono stati accertati ripetuti “comportamenti palesemente spregiativi della persona, a parte i profili psichici, che rilevano sul piano del diritto all’integrità psicofisica e che, senza necessità di ulteriori allegazioni, possono configurare, per la loro palese offensività, un diritto al risarcimento del danno da determinarsi in via equitativa (in tale senso vedi Cass. n. 25114 del 2024, secondo cui “in presenza di comportamenti offensivi della persona, consistenti in condotte di emarginazione lavorativa accompagnate da insulti, il lavoratore ha diritto, nella misura congrua rispetto al caso di specie ed equitativamente determinata, al risarcimento del danno alla dignità personale, senza necessità di ulteriori accuse quanto ai profili pregiudizievoli di tali condotte ed a prescindere dal ricorrere di altri danni”)”.

In effetti, rileva la S.C., nella pronuncia appena richiamata, che “…in sé l’offesa alla dignità personale, che è insita nei principi massimi dell’ordinamento (art. 2 e 3 Cost.) ed imprescindibile al vivere sociale, è già ragione di danno all’individuo, come tale da risarcire; anche perché va prestata grande attenzione nel richiedere allegazioni soggettive, che possono facilmente essere esagerate ed amplificate, mentre il dato di base dell’aggressione alla percezione intima di sé propria di ciascun individuo – una volta superata la c.d. soglia minima di tollerabilità”.

Rilievi critici: la sussunzione della fattispecie nell’alveo delle molestie discriminatorie e la liquidazione del danno da discriminazione.
Invero, secondo il modesto parere dell’annotante, quel che il Tribunale avrebbe potuto rilevare d’ufficio, nella sufficienza delle accuse fattuali suffragate dall’istruttoria testimoniale, in presenza del fattore di protezione della nazionalità del lavoratore e delle condotte datoriali idonee a ledere la dignità personale del lavoratore e palesemente spregiative della persona stessa, sarebbe stata la sussunzione della fattispecie nell’alveo delle molestie discriminatorie (cfr. sulla rilevabilità d’ufficio della discriminazione cfr. Ord. n. 31471/2023 e art. 2, par. 3, della Direttiva 43/2000/CE sulla razza o l’origine etnica (“Le molestie sono da considerarsi, ai sensi del paragrafo 1, una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato per motivi di razza o di origine etnica e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo prassi nazionali degli Stati membri.”), recepita dal D.Lgs. n. 215/2003.

Naturale conseguenza di questa riqualificazione sarebbe stata la liquidazione del danno in ottica “dissuasiva”, in aderenza all’art. 15 della Direttiva stessa (“Le sanzioni che possono prevedere un risarcimento dei danni devono essere effettive, proporzionate e dissuasive”), che avrebbe consentito di riconoscere un compendio risarcitorio certamente più effettivo e più rispondente al diritto dell’Unione, così evitando l’applicazione di una liquidazione equitativa che presta il fianco ad una maggiore soggettività e discrezionalità.

Sul punto dei criteri liquidativi tesi a riempire di contenuto i principi di effettività, dissuasività e proporzionalità attraverso le norme di diritto interno, va segnalata la causa C-38/24, in attesa delle conclusioni dell’Avvocato Generale per la data del 13 marzo 2025, ove è esposta la richiesta nomofilattica aggiuntiva, avanzata dalle parti del procedimento, di pronunciarsi anche circa l’art. 11, L. n. 689/1991, sulla determinazione dei criteri liquidatori delle sanzioni pecuniarie amministrative, possa reputarsi una norma interna tesa ad evitare una discrezionalità eccessiva da parte dei giudici interni ai fini della determinazione delle sanzioni pecuniarie, atteso che conto ne è la natura per pacifica giurisprudenza anche interna – cfr. Cass., Sez. Un., sent. n. 20819/2021, capo 10.3 e seguenti.

Sul punto, merita di essere segnalata altra opzione ermeneutica in tema di risarcimento da danno da discriminazione (di genere) operata dal Tribunale di Bologna, Sez. Lav., del 31 dicembre 2021, facendo applicazione dell’art. 37, co. 4, D.Lgs. n. 198/2006, e, richiamando la giurisprudenza di merito (Tribunale Firenze, Sez. Lav., 22 ottobre 2019, est. Consani) sia la nota sentenza delle Sezioni Unite (sent. 5 luglio 2017, n. 16601, dalla quale però le stesse SS.UU. hanno preso le distanze con la sent. 20819/2021 citata), assume che, ove nel diritto interno vi siano deficit di tutela rispetto ai principi dell’Unione europea in tema di rimedi risarcitori, ben si può fare riferimento alla nozione di “danno comunitario” introdotta dalle Sezioni Unite sul lavoro precario (Cass., Sez. Un., 15 marzo 2016, n. 5072: orientamento oggi messo duramente in discussione dall’Ordinanza pregiudiziale del Tribunale di Milano del 07 ottobre 2024, rubricata alla causa C-668/24 della CGUE, e dalla procedura di infrazione indetta dalla Commissione UE – INFR(2014)4231 – del 03 ottobre 2024 all’indomani della pubblicazione del D.L. n. 131/2024 teso proprio ad evitare la procedura d’infrazione stessa).

Infatti, molto più confacente all’orientamento espresso dalle SS.UU. (sent. n. 20819/2021) appare risultare l’orientamento che va sempre più consolidandosi nell’ambito della giurisprudenza di merito secondo cui opera una automatica applicazione del rimedio sanzionatorio-risarcitorio, senza onere probatorio e in re ipsa, allorquando si asseveri la sussistenza di una condotta discriminatoria.

Tra le varie (Tribunale Firenze, Sez. Lav., 22 ottobre 2019, est. Consani, cit.; Tribunale Ferrara, Sez. Lav., 31 marzo 2021, est. Bighetti; Tribunale Bologna, Sez. Lav., 31 dicembre 2020, est. Zompì; Tribunale Bergamo, Sez. Lav., 30 marzo 2018, est. Bertoncini; Tribunale Firenze, Sez. Lav., 20 aprile 2016, est. Papait; Tribunale Ascoli Piceno, Sez. Lav., 25 marzo 2016, n. 22; Corte d’appello di Trento, Sez. Lav., 23 febbraio 2016; Tribunale Firenze, Sez. Lav., 9 novembre 2015, est. Santoni Rugiu; Tribunale Bergamo, Sez. Lav., 8 agosto 2014, est. Bertoncini, confermata da Corte d’appello di Brescia, Sez. Lav., n. 529/2014; Tribunale Pistoia, Sez. Lav., 12 luglio 2012, est. Tarquini), merita di essere richiamata la pronuncia della Corte d’appello Milano, Sez. Lav., 1° settembre 2021, n. 1067, secondo la quale “una volta accertata la condotta discriminatoria, l’applicazione del rimedio perequativo è necessitata – perlomeno in forma di risarcimento del danno – affinché possa trovare piena effettività la funzione del diritto antidiscriminatorio sia in termini di eliminazione della diseguaglianza o dello sfavore subiti sia in termini dissuasivi e sanzionatori”.

Nella stessa direzione altre due pronunce della Corte di cassazione, Sez. Lav. (n. 31071 del 02 novembre 2021 e n. 28646 del 15 dicembre 2020), che asseverano la natura ontologicamente preventivo-dissuasiva del rimedio risarcitorio e che utilizzano i parametri liquidatori della “gravità della discriminazione” (Cass. n. 31071/2021) nonché della personalità dell’autore della condotta discriminatoria (Cass. n. 28646/2020).