Temporaneità dell’obbligo di repêchage

Come già visto in precedenza, uno degli aspetti fondamentali che rilevano in ottica di accertamento della legittimità, oppure no, di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo consiste nel previo adempimento del c.d. “obbligo di repêchage”.

In estrema sintesi, prima di procedere all’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve previamente verificare se il dipendente possa essere utilmente ri-adibito in altre posizioni, senza che ciò debba necessariamente contemplare (i) l’obbligo di formare il dipendente affinché possa ricoprire le posizioni eventualmente disponibili (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 15 marzo 2021, n. 7218) e (ii) la modifica degli assetti organizzativi esistenti al fine di creare la disponibilità stessa di una o più posizioni in cui possa essere utilmente adibito il lavoratore licenziando (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 23 febbraio 2021, n. 4896).

Ci si interroga, però, sull’arco di tempo in cui queste disponibilità debbano essere verificate dal datore di lavoro e, precisamente, se la disponibilità di altre posizioni debba essere riscontrata all’atto del licenziamento o anche in epoca successiva e/o antecedente.

Interviene, su questo punto, la Suprema Corte di Cassazione che, secondo l’orientamento più recente, propende per un’interpretazione dell’obbligo di repêchage nei seguenti termini: “il datore ha l’onere di provare che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti … quel che rileva è, in altri termini, l’impossibilità di adibire il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, tenuto conto dell’organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento” (cfr. Cass. Civ., Sez. I, sentenza del 18 gennaio 2022, n. 1386).

Che questa sia l’unica interpretazione possibile dell’obbligo in commento è, secondo i Giudici di legittimità, presto detto: “il giustificato motivo oggettivo che rende legittimo l’intimato licenziamento si configura proprio in assenza di collocazioni alternative del prestatore d’opera all’epoca del licenziamento stesso; questo può considerarsi legittimo ove la determinazione del datore di lavoro di recedere dal rapporto sia motivata dall’impossibilità di destinare il lavoratore a mansioni diverse: situazione che, per condizionare il valido esercizio del diritto potestativo del datore di lavoro, deve evidentemente sussistere nel momento in cui è espressa la volontà di recedere, e non in un momento successivo” (cfr. Cass. Civ., Sez. I, sentenza del 18 gennaio 2022, n. 1386).

Il tentativo del Supremo Collegio di portare chiarezza in quest’ambito è molto apprezzato. Soprattutto a fronte di alcuni orientamenti di merito che tendono a estendere questa verifica da parte del datore di lavoro anche su un periodo di molto successivo al licenziamento stesso (che in alcuni casi è arrivato anche a sei mesi, se non a un anno), determinando così un vero e proprio “immobilismo” nell’operato aziendale – che si vede impossibilitata a mutare la propria organizzazione in considerazione dei cambiamenti del mercato e/o a procedere a nuove assunzioni per ricoprire mansioni anche solo analoghe a quelle del lavoratore licenziato – e determinando, sovente, il re-ingresso di lavoratori in contesti aziendali completamente mutati nelle more del giudizio avente ad oggetto il loro licenziamento, con non poche incapacità di riadattamento.

A cura di Marasco Law Firm