Patto di non concorrenza e corrispettivo: il recente punto della Cassazione

La fedeltà di un dipendente verso il proprio datore di lavoro non è un optional, ma un vero e proprio dovere di legge, e ciò – quantomeno – per tutta la durata del rapporto di lavoro (cfr. art. 2105 Cod. Civ.): questo implica che il dipendente non potrà trattare affari in concorrenza con il datore di lavoro, né per conto proprio né per conto di terzi.

Una volta terminato il rapporto di lavoro, però, il dipendente (ormai “ex”) sarà libero di spendere altrove le proprie professionalità ed esperienza, indipendentemente dal fatto che queste siano state – in tutto o in parte – acquisite alle dipendenze del precedente datore di lavoro.

Per arginare tale rischio, soprattutto in relazione alle figure professionali dotate di una certa specializzazione, i datori di lavoro possono ricorrere all’istituto del patto di non concorrenza (cfr. art. 2125 Cod. Civ.), ossia ad un accordo mediante il quale, per un arco di tempo limitato (massimo tre anni per i dipendenti e massimo cinque anni per i dirigenti) e nell’ambito di un certo territorio, il dipendente si astiene dallo svolgere le stesse attività lavorative e/o attività analoghe a quelle svolte per il precedente datore di lavoro, così come dal lavorare in favore di soggetti che operano nello stesso settore merceologico del precedente datore di lavoro.

È chiaro che un simile accordo deve essere remunerato; meno chiaro è, invece, il fatto che, per legge, tale remunerazione – oltre a dover essere effettivamente prevista – deve essere (i) proporzionata all’impegno anti-concorrenziale richiesto al dipendente nonché (ii) determinata o determinabile nel suo ammontare.

Proprio su questi due punti, com’era prevedibile, si sono registrati orientamenti giurisprudenziali contrastanti tra loro, arrivando taluni Tribunali ad ammettere la remunerazione del patto di non concorrenza in costanza di rapporto (Trib. Milano, 27.1.2007) e in una certa misura percentuale proporzionata all’ampiezza territoriale e durata (15% dell’ultima retribuzione a fronte di due anni di non concorrenza su tutto il territorio europeo: Trib. Milano, 22.10.2003, est. Di Ruocco); ed arrivando altri Tribunali ancora a sancire che il patto di non concorrenza possa essere remunerato solo una volta che è cessato il rapporto di lavoro (Trib. Milano, 28.9.2010, est. Attanasio), per giunta in altre misure percentuali ancora (35%).

In qualche caso, però, il contrasto si è tradotto in una vera sovrapposizione della valutazione di proporzionalità con quella di determinatezza/determinabilità del corrispettivo. Ed è questo il caso su cui si è recentemente pronunciata la Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 5540 del 1° marzo 2021), sancendo l’illegittimità di una simile sovrapposizione.

In quella stessa sede, tra l’altro, il Supremo Collegio ha marcato l’accento sul fatto che il corrispettivo del patto di non concorrenza non deve necessariamente essere quantificato a priori, ben potendo essere determinato anche mediante meccanismi aritmetici, come quello per cui “‘in caso di cessazione anticipata del rapporto di lavoro’ al dipendente spetti ‘quanto maturato in ragione d’anno o frazione’ sulla base di un corrispettivo pattuito in 6.000 euro su base annua”.

A fronte della previsione di un simile calcolo, a nulla valgono considerazioni quali “l’impossibilità di ‘percepire complessivamente 18.000 euro’” [n.d.r.: ossia l’ammontare totale del corrispettivo del patto di non concorrenza] e la “utilità che il comportamento richiesto [n.d.r.: al lavoratore] rappresentava per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato”, pure mosse dalla sentenza di merito poi annullata dalla Cassazione: argomentazioni del genere, a ben vedere, nulla tolgono e nulla aggiungono al fatto che sono stati comunque forniti dei criteri matematici per rendere determinabile il corrispettivo del patto di non concorrenza, salvandolo così da una pronuncia di invalidità. Oltretutto, il lavoratore era in condizione di poter immaginare quanto gli sarebbe spettato a tale titolo.

Tra le sentenze rese dai Giudici di legittimità sul patto di non concorrenza, quella in commento sembra portare una discreta luce su questo istituto dai confini ancora labili. Una robusta e chiara stesura del patto di non concorrenza sin dall’inizio del rapporto di lavoro può aiutare molto, ma resterà determinante la corretta e concreta applicazione, da parte dei Tribunali e delle Corti del merito, dell’orientamento da ultimo enunciato dalla Suprema Corte.

a cura di MARASCO LAW FIRM