Quello che le sentenze non dicono: influencer e contratto di agenzia

di Paolo Iervolino

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«L’influencer è un agente di commercio». Così è stata massimizzata dai più la sentenza n. 2615/2024 del Tribunale di Roma.

Come spesso accade, tuttavia, fermarsi alla massima sarebbe un errore.

Non perché non siano condivisibili i ragionamenti del giudice romano che portano alla qualificazione dell’influencer come agente di commercio, ma essenzialmente perché la pronuncia non dice “solamente” questo.

Una breve contestualizzazione dei fatti è coessenziale ai ragionamenti che seguiranno. Infatti, se ci si fermasse alla massima, si potrebbe pensare che il Tribunale capitolino abbia rigettato il ricorso di un influencer che rivendicava una differente qualificazione del rapporto con la società per cui promuoveva determinati prodotti. E invece, la vicenda in esame ha visto ricorrere la società per l’annullamento del verbale ispettivo di un ente previdenziale che – qualificando il rapporto (formalmente) di consulenza con l’influencer come (sostanzialmente) di agenzia – ne rivendicava il pagamento dei contributi.

Il Tribunale di Roma ha rigettato il ricorso sulla base del seguente ragionamento: tramite il codice sconto dell’influencer i follower acquistano prodotti della società e per questa ragione, proprio come l’agente di commercio, “assume stabilmente l’incarico di promuovere per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata” (comma 1, art. 1742 c.c.).

Aver accolto la ricostruzione dell’ente previdenziale non vale però a trarre come “unica” conseguenza che quello dell’influencer possa essere al più considerato come un rapporto di agenzia.

Anzitutto perché nel caso in esame il petitum era debitamente circoscritto a un accertamento ispettivo. La questione non era sapere la corretta qualificazione del rapporto dell’influencer, ma accertare la validità di verbale dell’ente previdenziale degli agenti di commercio.

Si può dunque dire che la qualificazione dell’influencer come agente di commercio, in una prospettiva pro labour, costituisse il massimo a cui ambire.

Verrebbe però da chiedersi quale sarebbe stato l’esito del giudizio se a ricorrere fosse stato l’influencer al fine di accertare una diversa qualificazione del contratto di consulenza, posto che – come emerge chiaramente dalla ricostruzione dei fatti – allo stesso veniva comunque corrisposto un compenso fisso per l’attività di promozione sui social network.

Beninteso, qui non si sta propugnando una prospettiva di pan-subordinazione, semplicemente nessuno può ritenere che la decisione del Tribunale di Roma abbia messo un punto fermo sulla qualificazione dell’influencer. Ciò perché la promozione spesso prescinde dalla presenza di un codice sconto personalizzato, unico elemento che potrebbe far legittimamente pendere l’ago della bilancia verso il rapporto di agenzia.

Un merito però a questa pronuncia può e deve essere dato: aver definitivamente messo a tacere tutti coloro che non ritenevano che l’influencer potesse essere un lavoratore.