Successione di contratti a termine con la pubblica amministrazione: necessità di impugnazione di ogni singolo contratto ex art. 32 Legge n. 187/2010, salvo che non venga dedotto che si tratta del rinnovo ininterrotto di un unico contratto

Con l’ordinanza n. 8038/2022, la Corte di cassazione ha stabilito che in caso di successione di contratti stipulati nell’ambito del pubblico impiego si applichi la decadenza ex art. 32 della Legge n. 187/2010, la quale prevede la impugnazione di ogni singolo contratto entro un certo termine (120 gg.) al quale deve seguire il deposito del ricorso entro i successivi 180 giorni.

Come risulta evidente, difficilmente il lavoratore, assunto a termine nella pubblica amministrazione (si pensi agli Enti locali o alle aziende pubbliche) impugnerà il contratto esponendosi al rischio di non vederselo rinnovare, perdendo così la possibilità di avvantaggiarsi, in futuro, di una possibile stabilizzazione o, semplicemente, con il rischio di perdere una fonte di guadagno.

La Corte giustifica tale opzione interpretativa argomentando sul richiamo fatto negli artt. 2, comma 2 e 36 del D.Lgs. n. 165/2001, alla disciplina normativa privatistica, nonché alla Direttiva 1999/70 sul contratto a termine che, secondo la Corte di giustizia, rimette agli ordinamenti interni stabilire termini e modalità procedurali di ricorso per l’esercizio di diritti, salvo che non siano tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile l’azione giudiziaria. Né sussistono perplessità sotto il profilo dell’equivalenza, poiché la decadenza ex art. 32 si applica sia alla violazione dei diritti derivanti dal diritto dell’Unione che a quello interno.

Vi sarà modo approfondire questo aspetto ma resta che questo orientamento, del tutto nuovo, confligge con principi già stabiliti ripetutamente dalla stessa Corte. Nella sentenza n. 2175/2021 si legge infatti che nell’impiego pubblico: “L’illecito si consuma non in relazione ai singoli contratti a termine ma soltanto dal momento e per effetto della loro successione e pertanto il danno presunto dovrà essere liquidato una sola volta, nel limite minimo e massimo fissato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, considerando nella liquidazione dell’unica indennità il numero dei contratti in successione intervenuti tra le parti sotto il profilo della gravità della violazione (cfr. in tali termini, Cass. 3.12.2018 n. 31175)”. Non si comprende allora la necessità di impugnazione dei singoli contratti, con conseguente decadenza, semmai ipotizzabile, al limite (ma v. infra), a far data dal cessare della reiterazione.

Ancora più chiara è poi la ordinanza n. 33466/2021 che precisa: “che l’affermare la prescrizione il primo motivo risulta infondato dovendosi dare continuità alla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5740/2020 e Cass. SS.UU. n. 5072/2016) secondo cui, in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, derivante dalla prestazione resa in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte della P.A., ha origine contrattuale e il relativo diritto è pertanto assoggettato all’ordinario termine di prescrizione decennale”. Appare qui evidente l’insanabile contraddizione tra l’affermare l’obbligo di impugnazione dei singoli contratti e la prescrizione decennale del diritto al risarcimento del danno: prescrizione che non potrà mai decorrere ove si subordini ai tempi ristretti per la proposizione dell’azione giudiziaria ai termini di cui all’art. 32 Legge n. 183/2010.

Vi sono quindi tutti gli elementi per la rimessione della questione alle Sezioni unite della cassazione, attesa il contrasto evidente di giurisprudenza nella sezione lavoro.

Va aggiunto che la Corte costituzionale (sentenza n. 303/2011, punto 4.2 della motivazione) nel pronunciarsi sulla costituzionalità dell’art. 32 aveva così chiarito: “In primo luogo, la innovativa disciplina in questione è di carattere generale. Sicché, essa non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica), perché le controversie su cui essa è destinata ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine. Anzi, a ben vedere, lo Stato-datore di lavoro pubblico a termine, cui la regola della conversione del contratto a termine non si applica ai sensi dell’art. 36, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), non figura neppure tra i destinatari delle disposizioni censurate.”.

La sentenza in commento, insomma, lascia ampi margini di perplessità che andranno chiariti al più presto.

Né, tali perplessità, sono superate dalla via d’uscita suggerita nella sentenza (dove ci si è evidentemente resi conto dei problemi che crea il nuovo corso giurisprudenziale), secondo la quale: “11. Ciò non toglie che il giudice del merito possa accertare, ove tale aspetto sia devoluto dal lavoratore, che la successione di più contratti a termine derivi dal frazionamento artificioso di un unico contratto, in frode alla legge, in ragione della permanenza del rapporto contrattuale negli apparenti intervalli non lavorati; in tale eventualità il termine di decadenza decorrerebbe, infatti, dalla cessazione effettiva di tale unico ed ininterrotto rapporto contrattuale”.

È vero che questa, di fatto, è la reale situazione in caso di successione di contratti a termine nel settore pubblico: il lavoratore viene infatti assunto la prima volta e il contratto viene poi rinnovato (in realtà prorogato) senza soluzione di continuità secondo le formali regole di bilancio dell’ente pubblico utilizzatore. Ma imporre un onere di deduzione al lavoratore sulla circostanza, che ovviamente d’ora in poi verrà adempiuto, significa porre nel nulla le migliaia di cause in corso avanti a tutte le autorità giudiziarie italiane, dove tale eccezione non sia stata puntualmente svolta in forza del diritto vivente sino a ieri vigente.