Il caso della “gig economy” e la sentenza rivoluzionaria del caso Uber

Premessa

Stando ad una definizione abbastanza condivisa, la c.d. gig-economy[1] o, “economia dei lavoretti”, fa riferimento principalmente a due forme di lavoro: crowd work (il c.d. “lavoro folla”) e work-on-demand via app (c.d.“a chiamata”). Entrambe coinvolgo lavoro organizzati da una piattaforma digitale, secondo schemi relativamente nuovi.

Sulla base di recenti studi[2], le condizioni di lavoro nella gig-economy sono sotto pressione, soprattutto perché questi lavoratori sono inquadrati come autonomi e quindi esclusi dalle tutele fornito dal diritto del lavoro.

La ricerca di soluzioni volte a garantire un livello minimo di protezione sociale ai lavoratori coinvolti nella gig-economy appare di primaria importanza, soprattutto alla luce della sua crescente diffusione.

L’intenzione del presente lavoro è, dunque, quella di individuare le principali complessità su un tema, quello dell’economia delle piattaforme, ancora molto dibattuto a livello nazionale e sovranazionale.

Una parte rilevante del contributo sarà, infine, dedicato alla sentenza della Corte Suprema del Regno Unito sul caso Uber del 19 febbraio 2021

Il caso della c.d. “gig economy”

Il concetto giuridico di rapporto di lavoro è cambiato nel tempo. Nella sua forma dominante o classica il rapporto di lavoro si è evoluto nel corso del tempo in conformità dell’organizzazione economica del lavoro. Una tale accezione di rapporto di lavoro fa riferimento al lavoro svolto sulla base di contratti a tempo pieno, formali e a tempo indeterminato (senza vincoli temporali) nel quadro di un rapporto di lavoro subordinato.

 La caratteristica principale del rapporto di lavoro tipico sta nella sua organizzazione gerarchica: il datore di lavoro ha il dovere di dirigere i lavoratori nello svolgimento delle loro mansioni, di controllarne il lavoro monitorandone le prestazioni e di imporre misure correttive in caso di prestazioni insufficienti.

Il rapporto di lavoro inoltre permette a lavoratori e datori di lavoro di concordare condizioni di lavoro che vadano oltre i requisiti minimi di legge. Il rapporto di lavoro tipico è sottoposto a pressioni crescenti. Infatti, negli ultimi anni i lavoratori vengono impiegati con sempre maggiore frequenza in forme di lavoro atipiche, che influenzano sia la domanda, sia l’offerta di lavoro e possono sollevare dubbi sull’applicazione dei quadri normativi di riferimento. Sebbene non esista una definizione ufficiale di lavoro atipico, questo include qualunque lavoro svolto al di fuori di un rapporto di lavoro tipico[3].

Al giorno d’oggi, la diffusione di forme di lavoro organizzate attraverso piattaforme on-line e applicazioni di dispositivi mobili (comunemente note come app) ha aperto un dibattito sulla necessità o meno di istituire una nuova classe di lavoratori, una terza categoria che si posiziona tra lavoratore subordinato e lavoratore autonomo[4].

 Il dibattito comporta conseguenze importanti sulle condizioni di lavoro, a seconda del fatto se questi lavoratori usufruiscano delle protezioni normalmente associate al rapporto di lavoro tradizionale o meno.

L’individuazione di una soluzione è resa ancora più urgente dalla rapida crescita del numero di posti di lavoro nella gig economy, come pure in ragione dell’incremento generale della diffusione delle modalità di lavoro irregolari.

Il sostegno alla necessità di una categoria giuridica per i “lavoratori autonomi” spesso attinge agli esempi degli autisti di Uber e Lyft. Secondo questa teoria si tratterebbe di autisti in tutto assimilabili ai tassisti o ai camionisti tradizionali, ad eccezione del fatto che la loro comunicazione con i clienti è mediata dalle app disponibili su dispositivi mobili. I lavoratori rientranti in questa categoria non godrebbero dell’intera gamma di diritti e di prestazioni disponibili ai lavoratori nel quadro di un rapporto di lavoro tipico. Tuttavia, è stato osservato che gli autisti di Uber e Lyft, al pari di altri lavoratori in contesti simili, sono dipendenti de facto sulla base di quadri giuridici ben consolidati (ad esempio, l’orario di lavoro è misurabile e viene effettivamente versato un salario minimo garantito); per questa ragione questi lavoratori dovrebbero essere classificati quali dipendenti e dovrebbero essere loro garantite le relative tutele.

Secondo autorevoli giuristi nazionali e internazionali le c.d. “prestazioni trasferibili”, rivolte ai “lavoratori mobili”[5] sono state proposte quale ulteriore strumento atto a garantire la protezione dei lavoratori nella gig economy [6].

Piuttosto che essere collegate ad un determinato datore di lavoro (come accade di norma nel rapporto di lavoro), le prestazioni trasferibili sono collegate direttamente al lavoratore.

Il vantaggio delle prestazioni trasferibili consisterebbe nella loro disponibilità a favore dei lavoratori di qualsivoglia categoria, che si tratti di dipendenti o di autonomi. Piuttosto che creare una nuova categoria di lavoratori, “con le prestazioni trasferibili i confini tradizionali tra dipendenti e autonomi diventano sempre più indistinti”[7].

Ulteriore potenziale vantaggio è che queste prestazioni possono essere utilizzate per finanziare la formazione delle competenze.

Tuttavia, la questione da sviscerare rimane quella del reddito insufficiente (per quel che concerne coloro che lavorano nel crowd-work e work-on-demand via app), nella misura in cui le prestazioni trasferibili sono collegate ai redditi (indipendentemente dal fatto che siano versate dai lavoratori, dalle imprese, o da entrambi), queste possono assicurare una maggiore flessibilità senza tuttavia garantire una sicurezza del reddito di base.

La natura decentrata del lavoro nella gig economy e le preoccupazioni sulle retribuzioni basse hanno dato origine ad un numero di iniziative finalizzate a rafforzare la rappresentanza e la voce dei lavoratori[8].

La sentenza inglese di primo grado sul caso Uber

Alla luce di quanto detto sino ad ora sulle complessità legate alla c.d. gig economy o “economia dei lavoretti”, imprescindibile è la trattazione, seppur breve, della recente pronuncia della Corte Suprema del Regno Unito.

Nel 2016 i ricorrenti, Mr Y. Aslam e Mr J. Farrar, convenivano in giudizio la Uber London innanzi all’ Employment Tribunal di Londra[9].

L’oggetto della controversia verteva sulla qualificazione del loro rapporto come drivers di Uber.

Il Tribunale inglese, a seguito di un lungo accertamento, ha riconosciuto ai ricorrenti la qualifica di workers e non di self-employed secondo quanto stabilito dall’art. 230 lett b) dell’Employment Right Act (1996) e, di conseguenza, il riconoscimento dei diritti ad una giusta retribuzione e all’applicazione delle norme sull’orario di lavoro degli autisti privati. A tal proposito, occorre sottolineare che, nell’ordinamento anglosassone, lo status giuridico di worker, che si distingue da quello di employee  derivante da contract of employment, sussiste se: “il rapporto deriva da un contratto di lavoro (lett. a) o da qualsiasi altro contratto in forza del quale una parte si obbliga a fare o a esercitare personalmente un lavoro o servizi per un terzo, il quale non sia un cliente del prestatore (lett.b)”[10]. Ne discende che, in conformità di quanto stabilito dai giudici di prima istanza, ai lavoratori di Uber spetteranno 28 giorni di ferie annuali retribuite e un limite di 48 ore settimanali, nonché il pagamento del salario minimo, attualmente di 7.50 sterline all’ora per i lavoratori sopra i 25 anni[11].

In seguito, la ULL (Uber London) aveva fatto ricorso in appello in base al fatto che il Tribunale di primo grado avesse trascurato la disciplina del rapporto di agenzia che, come sostenuto da Uber, sarebbe il rapporto intercorrente tra la piattaforma e i drivers.

Inoltre, il punto essenziale oggetto del ricorso in appello di ULL, si fondava sull’ individuazione del momento in cui, i drivers possono considerarsi effettivamente “al lavoro”, cioè se dal momento in cui accettano la commissione di un viaggio tramite la piattaforma, oppure dal momento in cui sussistono contemporaneamente tre condizioni: “1) sono presenti nel territorio assegnato loro; 2)si connettono alla piattaforma con il loro account (switched on the app), 3) risultano, di conseguenza, disponibili a lavorare (cioè ad accettare la richiesta di trasporto di passeggero)”[12]

Un punto chiave della decisione dei giudici è stato che Uber deve considerare i suoi conducenti come “lavoratori” durante il tempo di connessione alla App, cioè dal momento in cui accedono fino a quando si disconnettono, non solo quando effettivamente stanno trasportando un cliente. I conducenti, infatti, trascorrono del tempo collegati anche senza muoversi, in attesa che le persone prenotino corse sulla App.

Le richieste di Uber si basavano sul presupposto che i drivers non hanno alcun obbligo di connettersi all’app di Uber e, anche qualora dovessero farlo, non sussiste un obbligo a risultare disponibili e pronti ad accettare un viaggio, fino al punto che non sarebbe loro vietato accettare commissioni da parte di altri operatori del settore, dotati di licenza PHV[13] e, dunque, suoi concorrenti.[14]

La decisione della Corte d’appello Inglese (c.d Employment Appeal Tribunal)

La prima questione sciolta dal giudice d’appello è relativa alla titolarità del servizio di trasporto offerto ai passeggeri. Il dato secondo cui i drivers non possono gestire i propri affari, in quanto non abilitati dalla stessa Uber a negoziare con i clienti, ma siano obbligati ad accettare i termini imposti unilateralmente da essa, giustifica, secondo la Corte d’Appello, il fatto che gli autisti non possono essere considerati i titolari del servizio di trasporto. Di fronte a tale argomento, l’obiezione di Uber, secondo cui questo aspetto non sarebbe incompatibile con un rapporto di agenzia, non regge, in quanto –come sottolineato già in primo grado dall’ET- Uber comunque esercita un potere di controllo e quest’ultimo, certamente, non è compatibile con un rapporto di agenzia.[15]

Un’altra questione di difficile soluzione concerne, poi, l’assenza dell’obbligo per i drivers di attivarsi sulla piattaforma. La sentenza, infatti, considera che, sebbene corrisponda a realtà, risulta altrettanto vero il fatto che i drivers devono accettare almeno l’80% dei viaggi commissionati da Uber, altrimenti il loro account viene disattivato dalla stessa piattaforma, determinando un recesso unilaterale dal rapporto.

Occorre, infine, chiarire se l’autista possa qualificarsi come worker quando è in uno stato di attesa di ricevere una commissione non ancora pervenuta, ossia in quel frangente temporale «in between accepting assignments»[16].

Secondo il giudice d’appello, di fatto, non c’è nessun obbligo per l’autista di permanere nel territorio assegnatogli dalla piattaforma, né di connettersi all’app della stessa, eppure quando sussistono queste condizioni sorgono, conseguenzialmente, obbligazioni per i drivers che l’ET ha qualificato come “being available” (diventare disponibili) e Uber come “going on-duty” (essere in servizio), cioè un’obbligazione, per il giudice d’appello, “essential to Uber’s business”[17].

Si può dire, quindi, che un’autista sia in working time nel momento in cui vi è accettazione di una corsa offerta da Uber, dato che, nel tempo di riposo, gli autisti possono accettare incarichi da altri operatori dello stesso settore di trasporto.

È sufficiente, dunque, che vi sia la mera disponibilità (a prestare servizio) degli autisti al fine di integrare tutti gli estremi per qualificare il rapporto come di lavoro, quando – cioè – ricorrono le tre condizioni della presenza dell’autista nel territorio, della connessione all’app di Uber e quando i drivers siano pronti ad accettare la richiesta di viaggio.

Per quel che concerne la giurisprudenza nazionale, in tema di orario di lavoro, è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione il 29 maggio 2017 che, con sentenza n.13466, ha sottolineato che: “«ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, il D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 1, comma 2, lett. a), attribuisce un espresso e alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro», così che il tempo impiegato dal lavoratore, presso l’acciaieria di una ditta appaltatrice, per recarsi dall’ingresso della fabbrica alla sua specifica postazione di lavoro sia da considerare attività prodromica e, quindi, orario di lavoro (nel caso, soggetta a contribuzione INAIL). Certamente, nel caso in esame, si può configurare la medesima situazione: l’autista è presente nel territorio che, assegnato dalla stessa Uber, rappresenta il suo luogo di lavoro ed è disponibile nel momento in cui l’app della piattaforma risulti switched on.

La stessa sentenza afferma in seguito: “è orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso all’interno dell’azienda, a meno che il datore di lavoro non provi che il prestatore d’opera sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico”, è comprensibile che anche il giudice inglese abbia ritenuto che qualora, nei momenti di disponibilità, l’autista dovesse accettare commissioni di servizio di trasporto da parte di altri operatori, non potremmo più considerare quei momenti come working time; toccherà, presumibilmente, ad Uber dimostrarlo

La decisione rivoluzionaria della Corte Suprema del Regno Unito.

In data 19 febbraio 2021, la Corte inglese, riprendendo le risultanze dei gradi di giudizio precedenti, ha ricostruito le modalità di lavoro degli autisti, per poter qualificare il tipo di rapporto con cui sono legati alla piattaforma: la ricostruzione dei fatti concreti è di particolare importanza anche alla luce del fatto che, tra driver e Uber, non vi è un classico contratto di lavoro o di collaborazione, ma solo l’accettazione da parte del driver dei Partner terms, ossia di termini e condizioni posti da Uber sull’app.[18]

Ma come funziona nello specifico? In primo luogo, il driver dichiara sull’app la propria disponibilità ad accettare corse e attende di essere contattato dal cliente. Dalla parte degli utenti, il potenziale passeggero, tramite l’app Uber, prenota una corsa (in questa fase non ha l’obbligo di specificare la destinazione, anche se spesso la indica, nelle informazioni opzionali). Attraverso il GPS, la piattaforma localizza il cliente trovando anche il driver disponibile più vicino al luogo della richiesta, a cui viene inviata una notifica, contenente soltanto due informazioni: il nome (ma non il cognome) del passeggero e il suo rating su Uber.

In seguito, il potenziale autista ha quindi dieci secondi per accettare la richiesta. Se accetta la corsa, al passeggero vengono mandate informazioni sul nome del driver e sulla sua auto, e si apre una modalità di contatto tra i due tramite app: le uniche possibili comunicazioni passano quindi attraverso Uber. Solo quando il passeggero sale a bordo al driver viene comunicata la destinazione e, una volta attivato l’inizio della corsa, l’app programma il percorso.

Una volta completata la corsa, l’app calcola automaticamente la tariffa, addebitandola sulla carta di credito del passeggero. Una volta a settimana, poi, Uber accredita al driver le tariffe incassate, trattenendo un costo di servizio (che, nel caso di Aslam e Farrar, ammontava al 20% della tariffa). Al termine della corsa, all’autista e al passeggero è richiesto di assegnare un voto da 1 a 5.

Proprio su questa modalità di servizio si concentra la Corte suprema britannica per individuare Uber non come semplice strumento di intermediazione tra autista e passeggero, ma come elemento attivo, e dominante, del rapporto. È infatti Uber a fissare la tariffa: il driver non ha alcun potere di negoziare sul prezzo della corsa.

L’assenza di contrattazione e di accettazione delle condizioni dettate da Uber caratterizzano sia le modalità di servizio di trasporto, sia lo stesso rapporto con la piattaforma. Inoltre, anche la libertà dell’autista di rifiutare una corsa non è priva di conseguenze, dal momento che incide sul tasso di accettazione del driver, penalizzandolo.

 Peraltro, Uber esercita un controllo sui driver attraverso le recensioni dei passeggeri e limita il rapporto tra passeggeri e autisti, filtrando la relazione attraverso l’app e vietando espressamente ai driver di prendere contatti con i passeggeri.

Chiariti questi elementi di fatto, la Corte esclude allora che gli autisti Uber siano independent contractors: non hanno infatti il potere di gestire liberamente il rapporto con i clienti, come potrebbero fare se Uber fosse una semplice piattaforma di contatto tra domanda e offerta di trasporti. I driver sono invece, per il giudice britannico, workers, non dipendenti quanto gli employees, che hanno un contratto di lavoro subordinato, ma nemmeno liberi di gestirsi gli affari come se fossero autonomi.[19]

In sintesi, si può concludere riepilogando sinteticamente i cinque punti che hanno condotto la Corte Inglese a “schierarsi” dalla parte dei lavoratori, essi sono:

  1. Uber ha il controllo su quanto vengono pagati i drivers per il lavoro che svolgono. Uber, infatti, imposta la tariffa fissa per ogni viaggio e decide il costo del servizio che viene detratto dalle tariffe. La piattaforma ha, inoltre, il diritto di controllare se le tariffe vengono rimborsate in tutto o in parte a seguito di un reclamo di un passeggero.
  2. Uber richiede ai suoi dipendenti di firmare e accettare un accordo scritto standard, che definisce i termini contrattuali che regolano i servizi prestati dagli autisti, e gli autisti non hanno il diritto di modificarlo.
  3. Uber controlla la scelta dei conducenti se accettare o rifiutare le richieste di viaggio dei passeggeri una volta che hanno effettuato l’accesso all’app. Uber non informa l’autista della destinazione del viaggio prima che l’autista accetti, quindi i conducenti non possono rifiutare le richieste in base alla destinazione. Uber può anche penalizzare i conducenti per aver rifiutato o annullato troppe richieste inviando messaggi di avviso per migliorare le prestazioni. Uber può quindi approfondire la questione e disconnettere i conducenti dall’app per dieci minuti se le prestazioni (dal punto di vista di Uber) non migliorano.
  4. Uber ha un notevole controllo sul modo in cui gli autisti forniscono i loro servizi. Ad esempio, la piattaforma guida l’autista al punto di ritiro e stabilisce un percorso per il viaggio. I conducenti non devono seguire il percorso specifico, ma è probabile che riceveranno un feedback negativo dei clienti tramite la valutazione se non lo fanno. Uber utilizza la valutazione del cliente per monitorare le prestazioni del conducente e, laddove le valutazioni non soddisfano gli standard di Uber, l’accesso dei conducenti all’app può essere interrotto.
  5. Uber limita la comunicazione tra i conducenti e i passeggeri per garantire che non si sviluppi alcun rapporto tra passeggero e conducente al di là del singolo viaggio. Uber gestisce, infine, tutti i reclami e ulteriori interazioni.

La Corte Suprema, in base ai punti sopra richiamati, ha quindi respinto l’appello della società californiana e ha confermato la conclusione originale per cui i conducenti di Uber sono lavoratori subordinati a tutti gli effetti. La Corte, come già ribadito antecedentemente, ha anche confermato che gli autisti non lavoravano solo quando conducevano i passeggeri verso la loro destinazione, ma anche quando avevano l’app accesa e aspettavano di accettare le richieste di viaggio dei passeggeri.

Conclusioni

In conclusione, è possibile affermare che la decisione della Corte Suprema del Regno Unito cambierà il panorama per le aziende che operano nella gig economy. Quest’ultime si trovano di fronte a due scelte: accettare l’onere dei costi aggiuntivi associati all’assunzione di lavoratori, o ripensare alla loro struttura fondamentale, se vogliono che i loro dipendenti continuino a mantenere il vero status di lavoratori autonomi. Nessuna delle due opzioni è attraente per le imprese, in un momento in cui i loro bilanci sono stati duramente colpiti dalla pandemia.

La sentenza rappresenta una chiara e potente riaffermazione dell’importanza delle protezioni di base dell’occupazione. Darà forma certamente a tutti i casi futuri riguardanti la gig economy.


Note

[1] Secondo il Rapporto Inps 2018, “si tratta di un fenomeno che va inquadrato in una tendenza che caratterizza l’Unione Europea: la crescita del lavoro temporaneo e di forme alternative di lavoro autonomo, dagli zero hours contract inglesi ai mini-job tedeschi“.

[2] A tal proposito si veda uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) in “La gig-economy e il lavoro”, a cura di De Stefano V.

[3] Berg, J. 2016. Income security in the on-demand economy: Findings and policy lessons from a survey of crowdworkers (Geneva, ILO). Available at: http://www.ilo.org/travail/whatwedo/publications/WCMS_479693/ lang–en/index.htm, 2016

[4] ILO “Iniziativa del Centenario dell’ILO sul Futuro del Lavoro, nota informativa n. 3”, in https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—europe/—ro-geneva/—ilo-rome/documents/publication/wcms_614738.pdf

[5] Intendendo in questa sede quei lavoratori che passano di frequente da un posto di lavoro a un altro.

[6] Si veda a tal proposito le opinioni di Hill, 2015; Kamdar, 2016; Strom e Schmitt, 2016.

[7] Si veda per approfondimenti Kamdar, 2016

[8] Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso di Seattle ove i lavoratori dei servizi di trasporto che operano come lavoratori autonomi si sono organizzati attraverso un’associazione degli autisti che opera tramite una app. Una metodologia differente si è evoluta a partire dalla Uber Drivers Network, la rete degli autisti Uber, con ex autisti Uber che hanno creato la propria app — Swift — gestita come cooperativa con condivisione degli utili. Si pensi ancora al caso della Germania, dove il sindacato tedesco dei lavoratori dei servizi ha creato una categoria di lavoratori autonomi, mentre la IG Metal, il sindacato tedesco dei lavoratori metalmeccanici, ha avviato una campagna denominata Faircrowdwork a favore dei lavoratori della gig economy. Il risultato di queste iniziative sindacali appare ancora incerto poiché sollevano il tema della classificazione dei lavoratori della gig economy quali dipendenti o autonomi e, di conseguenza, il tema delle limitazioni legali al diritto dei lavoratori autonomi di costituire un sindacato.

[9] Employment Tribunal of London, 28 ottobre 2016, n. 2202550, in https://www.judiciary.gov.uk/wp-content/uploads/2016/10/aslam-and-farrar-v-uberemployment-judgment-20161028-2.pdf.

[10] Sul punto v. G. PACELLA, “Drivers di Uber: confermato che si tratta di workers e non di self-employed”, in Labour and Law Issues.

[11] Il governo inglese ha stilato delle classificazioni tabellari per calcolare il compenso orario in base al dato anagrafico dei lavoratori, in http://www.minimumwage.co.uk.

[12] Sul punto v. G. PACELLA, “Drivers di Uber: confermato che si tratta di workers e non di self-employed”, in Labour and Law Issues

[13] Per approfondimenti v. testo integrale Private Hire Vehicle (London) Act del 1998

[14] Sul punto v. G. PACELLA, “Drivers di Uber: confermato che si tratta di workers e non di self-employed”, in Labour and Law Issues p. 53.

[15] V. G. PACELLA. “Drivers di Uber: confermato che si tratta di workers e non di self-employed”, in Labour and Law Issues p. 53.

[16] Sent. par. 119

[17] Per far sì che sussista il rapporto di lavoro, infatti, gli autisti devono accettare almeno l’80% delle offerte di viaggio, che rappresenta un’alta percentuale.

[18] V. https://www.valigiablu.it/uber-sentenza-uk-gig-economy/

[19] Naughton J. “La sconfitta della Corte suprema del Regno Unito di Uber dovrebbe significare grandi cambiamenti per la gig economy” in https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/feb/27/ubers-uk-supreme-court-defeat-should-mean-big-changes-to-the-gig-economy.