Demansionamento nel pubblico impiego, anche come espressione del mobbing: limiti di legittimità – evoluzione giurisprudenziale e tutele

di Pierluigi Ferrari

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Corte di cassazione, Sez. Lav., ordinanza 8 maggio 2025, n. 12128
Consiglio di Stato, sentenza 12 marzo 2024, n. 1234
Tribunale di Roma, Sez. Lav., sentenza 27 novembre 2024, n. 12066

Considerazioni preliminari.

La giurisprudenza più recente (di merito, di legittimità e amministrativa) ha contribuito a delineare con maggiore chiarezza i confini di legittimità del demansionamento nel pubblico impiego, anche privatizzato.

Di particolare interesse risultano al riguardo la sentenza della Cassazione n. 12128/2025, la n. 2354/2024 del Consiglio di Stato, la n. 12066/2024 del Tribunale di Roma, che hanno affrontato il tema fornendo importanti principi e spunti interpretativi.

Il quadro normativo di riferimento.

Nel pubblico impiego – anche privatizzato – la disciplina delle mansioni trova il suo fondamento nell’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001, che impone l’adibizione del lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento.

Nel pubblico impiego, pertanto, come ci ricorda la dottrina maggioritaria, l’utilizzazione del lavoratore per incombenze che rientrano nella medesima area del contratto collettivo, non costituisce una forma di demansionamento (cfr. V. Tenore, Manuale del Pubblico impiego privatizzato, VI Ed., 2024, 188 e ss.).

1) Corte di cassazione, Sez. Lav., n. 12128/2025.

La sentenza in commento appare di particolare interesse poiché la Suprema Corte delinea in modo organico e sistematico i principi che regolano l’adibizione a mansioni inferiori nel pubblico impiego, definendo le condizioni di legittimità e i limiti entro cui tale pratica può essere ammessa. La pronuncia si inserisce nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale, ma ne offre una sintesi ragionata particolarmente utile per gli operatori del diritto.

Il fatto.

La controversia trae origine dal ricorso proposto da una ASL avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva ritenuto illegittima l’adibizione di alcuni infermieri ad attività proprie degli operatori sociosanitari (OSS), riconoscendo un risarcimento per danno alla dignità professionale ed all’immagine lavorativa. La Corte territoriale aveva escluso la legittimità di un’assegnazione di mansioni inferiori che avvenisse “ordinariamente” e non con modalità “marginali e funzionalmente accessorie e complementari” o in via “eccezionale e contingente“, rilevando che nel caso di specie l’adibizione a mansioni inferiori era stata “costante e sistematica” e aveva riguardato “buona parte della giornata lavorativa“.

I principi espressi dalla Cassazione.

La Suprema Corte, con una articolata motivazione, ha enunciato un importante principio di diritto in materia di mansioni inferiori nel pubblico impiego. Il lavoratore pubblico può essere adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle di assegnazione, ma ciò è ammesso solo al ricorrere di tre precise condizioni cumulative:

1) Le mansioni inferiori non devono essere completamente estranee alla professionalità del lavoratore.

2) Deve sussistere un’obiettiva esigenza organizzativa o di sicurezza del datore di lavoro pubblico.

3) La richiesta di mansioni inferiori deve avvenire:

– in via marginale rispetto alle attività qualificanti dell’inquadramento professionale

oppure

– quando tale marginalità non ricorra, fermo lo svolgimento prevalente delle attività qualificanti, lo svolgimento di mansioni inferiori deve essere meramente occasionale.

La Corte precisa che il ricorso sistematico e non marginale alle mansioni inferiori viola in sé, sul piano qualitativo, il diritto del lavoratore al rispetto della propria professionalità, anche se sia rispettato il parametro di prevalenza nello svolgimento delle attività proprie dell’inquadramento.

La sentenza in commento rappresenta quindi un importante punto di riferimento per la definizione dei limiti entro cui è legittima l’adibizione a mansioni inferiori nel pubblico impiego, bilanciando la tutela della professionalità del lavoratore con le esigenze organizzative della Pubblica Amministrazione.

2) Consiglio di Stato, Sez. II, n. 2354/2024.

La pronuncia in commento appare di particolare interesse in quanto affronta in modo organico il tema del rapporto tra mobbing e demansionamento, evidenziando come quest’ultimo possa costituire sia una fattispecie autonoma che una delle modalità tipiche attraverso cui si manifesta il mobbing.

Il fatto.

il caso riguardava un ispettore superiore della Polizia di Stato che aveva subito una serie di condotte ritenute sistematiche e persecutorie, in concomitanza con il cambio del vertice del Commissariato di P.S. presso cui prestava servizio come responsabile della Squadra investigativa.

In particolare, l’ispettore lamentava di essere stato vittima di comportamenti vessatori da parte della nuova dirigente culminati nel suo trasferimento all’ufficio “Controllo del territorio” di un altro Commissariato dove svolgeva attività esclusivamente burocratica, senza una vera responsabilità d’ufficio e in un contesto isolato.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto che il trasferimento si collocasse “nell’ambito della cornice vessatoria subita fino a quel momento e ne costituisce anzi il punto di massima espressività“, evidenziando come l’amministrazione avesse risolto un problema organizzativo “senza tenere nella minima considerazione la risorsa umana ad esso sottesa“.

I principi espressi da Consiglio di Stato.

Il limite negativo alla sussistenza di un demansionamento si ricava dalla disciplina civilistica del rapporto di lavoro, e segnatamente dall’art. 2103 c.c., che concerne lo ius variandi del datore di lavoro.

Dopo la riforma della materia attuata con il Jobs Act si è approdati ad una nozione di demansionamento di natura maggiormente formale-giuridica rispetto a quella previgente, che viceversa imponeva di ricavare l'”equivalenza” da una serie di fattori atti ad evidenziare la pesatura “in concreto” delle nuove mansioni svolte (in termini organizzativi, di relazione con l’interno o l’esterno, di autonomia decisionale, di disponibilità di budget ovvero di mezzi e risorse strumentali, ecc.). La ratio del divieto di demansionamento, in tale ottica, era da ravvisare nella necessità di salvaguardare il lavoratore da scelte datoriali che ne comportassero l’impoverimento del patrimonio professionale complessivo, inteso cioè come insieme di attitudini, capacità, competenze ed esperienze, non semplicemente in termini economici.

Quella attuale, ha rammentato il Consiglio di Stato, vuole comunque tutelarne l’inquadramento formale, ma in un’ottica di attenzione privilegiata anche alle esigenze organizzative del datore di lavoro.

Inoltre, aggiunge il Collegio, il demansionamento costituisce uno dei possibili modi, se non il più tipico, di atteggiarsi del disegno persecutorio che integra il mobbing. Quest’ultimo, infatti, può spingersi fino al l’emarginazione e l’isolamento del lavoratore, che costituisce senz’altro la forma più grave di demansionamento.

Ebbene, laddove il demansionamento costituisca uno dei modi, se non il modo per eccellenza di manifestazione del mobbing, il Collegio ritiene che possa continuare a trovare rilievo la relativa nozione previgente alla riforma del 2015. La cartina di tornasole della liceità della scelta, cioè, torna ad essere il depauperamento qualitativo della prestazione lavorativa ove essa sia mossa da intento vessatorio, ancorché giustificata e giustificabile sul piano organizzativo e comunque rispettosa formalmente del livello e del ruolo precedentemente rivestiti dal dipendente.

3) Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, n. 12066/2024.

La sentenza in commento appare di interesse poiché affronta in modo organico e approfondito i temi del demansionamento – e del mobbing – nel pubblico impiego, fornendo un’analisi dettagliata degli elementi costitutivi di tali fattispecie e dei relativi oneri probatori.

Il fatto.

Un dipendente di una Università romana, funzionario informatico inquadrato nell’area D3, ha agito in giudizio lamentando di aver subito demansionamento (e mobbing). In particolare, il ricorrente deduceva di aver svolto dal 2012 attività di amministratore e coordinatore della formazione a distanza e delle attività multimediali dell’ateneo, di essere stato successivamente privato del ruolo di RUP per alcuni progetti, di aver subito un trasferimento in locali non agibili, di essere stato escluso da progetti e di aver subito una dequalificazione professionale con assegnazione di compiti meramente esecutivi.

Il lavoratore lamentava inoltre il rifiuto delle richieste di lavoro agile e tempo parziale, sostenendo che tali condotte avevano determinato la compromissione del suo stato di salute.

I principi espressi dal Tribunale di Roma.

Il Tribunale ha affrontato la vicenda muovendo dall’analisi del quadro normativo di riferimento, in particolare l’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001 che disciplina le mansioni nel pubblico impiego.

Quanto al demansionamento, il giudice ha ribadito che nel pubblico impiego vige il principio di equivalenza formale delle mansioni, per cui il datore di lavoro pubblico è vincolato esclusivamente al rispetto dell’assegnazione di mansioni proprie dell’Area di inquadramento, prescindendo dalla professionalità acquisita dal dipendente. L’equivalenza professionale delle mansioni è, dunque, stata ricondotta espressamente alla classificazione prevista dai contratti collettivi.

Nel caso di specie, il Tribunale ha escluso il demansionamento rilevando che le mansioni affidate al ricorrente presentavano un grado di autonomia proprio del livello di appartenenza. In particolare, le attività svolte comportavano “svolgimento di funzioni implicanti diverse soluzioni non prestabilite” e responsabilità “relativa alla correttezza tecnico e/o gestionale delle soluzioni adottate“.

Conclusioni.

Tutti e tre i provvedimenti in commento pongono l’accento sulla necessità di tutelare la professionalità

del lavoratore pubblico:

– la Cassazione n. 12128/2025 stabilisce che il ricorso sistematico e non marginale alle mansioni inferiori viola il diritto del lavoratore al rispetto della propria professionalità;

– il Consiglio di Stato, sottolinea come l’equivalenza delle mansioni vada ricavata e soppesata in concreto, soprattutto laddove il demansionamento si inserisca in un contesto vessatorio;

– Il Tribunale di Roma ribadisce l’importanza del principio di equivalenza formale delle mansioni nel pubblico impiego e la necessità di rispettare l’assegnazione di mansioni proprie dell’area di inquadramento.

In particolar modo, la decisione della Cassazione si inserisce in un filone giurisprudenziale consolidato che ha progressivamente definito i confini del legittimo esercizio dello ius variandi da parte delle amministrazioni pubbliche, con particolare attenzione alla salvaguardia della dignità professionale dei lavoratori.

Nel caso specifico, la Corte di secondo grado aveva accertato che agli infermieri erano state richieste prestazioni proprie degli OSS (trasporto dei malati, riordino dei letti, risposta ai campanelli, cura delle incombenze igieniche dei pazienti, cambio dei pannoloni, gestione di padelle e pappagalli) in via “costante e sistematica“, per “buona parte della giornata lavorativa” e per un periodo prolungato (“negli anni“).

La Cassazione evidenzia come il ricorso sistematico e non marginale alle mansioni inferiori violi il diritto del lavoratore al rispetto della propria professionalità, anche quando sia rispettato il parametro di prevalenza nello svolgimento delle attività proprie dell’inquadramento.

Diversamente ragionando, ne resterebbe svilita la stessa regola sulla coerenza tra inquadramento e mansioni sancita dall’art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e ne resterebbe lesa la professionalità e l’immagine lavorativa del dipendente.

Particolarmente significativa è la parte della sentenza dedicata al risarcimento del danno non patrimoniale. La Cassazione conferma l’orientamento secondo cui il demansionamento sistematico determina una lesione all’immagine e alla dignità professionale del lavoratore, configurando un interesse non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c.

La Corte d’Appello aveva individuato specifici elementi da cui desumere il pregiudizio: la lunga durata dello svolgimento di mansioni inferiori, la natura prettamente manuale delle attività imposte (a fronte del carattere anche intellettuale della professione infermieristica), e lo svolgimento di tali attività alla presenza dei pazienti. La Cassazione conferma che tale ragionamento presuntivo è “non implausibile” e costituisce una valutazione del merito non sindacabile in sede di legittimità.

Il criterio utilizzato per la liquidazione equitativa (attribuzione di una percentuale calcolata sulla retribuzione) viene ritenuto congruo, in quanto pone in relazione la misura del ristoro con il valore della prestazione lavorativa.

La pronuncia, ad ogni modo, evidenzia il delicato bilanciamento tra l’interesse pubblico alla continuità ed efficienza dei servizi sanitari e la tutela della professionalità del singolo lavoratore. La Corte riconosce che il dovere di leale collaborazione del dipendente pubblico può giustificare l’assegnazione di mansioni inferiori, ma solo entro limiti ben definiti che non compromettano la dignità professionale. La sentenza si inserisce così nel più ampio processo di valorizzazione delle professioni sanitarie, contribuendo a definire un quadro giuridico che tuteli la professionalità senza compromettere l’efficienza dei servizi pubblici essenziali.

La stessa dottrina sopra citata rammenta che per ragioni di efficienza ed economia del lavoro, o di sicurezza, possono essere richieste, incidentalmente e marginalmente, attività corrispondenti a mansioni inferiori che il lavoratore è tenuto ad espletare (cfr. V. Tenore, op. cit., 188 e ss.).

In conclusione, le tre pronunce oggetto di commento concordano sulla necessità di una valutazione complessiva che tenga conto di tutti gli elementi fattuali e del contesto organizzativo in cui lavoratore disimpegna la prestazione lavorativa.

Dunque, l’evoluzione giurisprudenziale più recente ha contribuito a delineare con maggiore chiarezza, da un lato, i confini del demansionamento (e della dequalificazione) nel pubblico impiego – anche privatizzato – e, dall’altro lato, un sistema di tutele che, pur tenendo conto delle peculiarità e delle esigenze organizzative del pubblico impiego, garantisca al lavoratore contro forme di svilimento della propria professionalità, che si manifesta nell’estrinsecazione della propria utilità e delle proprie capacità nel contesto lavorativo.