Neutralizzazione delle assenze per permessi mensili ex lege n. 104/92 e diritto del lavoratore caregiver al riconoscimento delle voci retributive aggiuntive legate alla presenza

di Gianna Elena De Filippis

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Nelle vesti di operatori del diritto, il modesto tentativo quotidiano è quello di donare al diritto del lavoro una veste sostanziale sempre più idonea a creare uguaglianze e dignità sociali, nella costante affermazione dell’equazione tra diritto fondamentale e diritto umano.
La fattispecie che si andrà ad esaminare, di enorme complessità ed innovazione, riguarda l’accertamento della natura discriminatoria del comportamento datoriale consistente nel mancato computo delle assenze dei lavoratori per permessi mensili ex lege n. 104/92 (per assistenza ai familiari in condizioni di grave disabilità) nella determinazione degli elementi retributivi aggiuntivi-premiali introdotti con la contrattazione aziendale e legati alla effettiva presenza in servizio.
In sostanza, ai lavoratori assenti dal lavoro per permessi ex lege n. 104/92 non viene riconosciuto l’elemento retributivo aggiuntivo-premiale legato alla presenza; diversamente, a tale scopo, altri permessi ed altre assenze, per voluntas degli stessi contratti aziendali, sono considerati presenze: ad esempio, i permessi sindacali ex art. 23, Legge n. 300/1970.
Tale situazione ha, di fatto, alimentato un sentimento di grave ingiustizia tra i lavoratori al punto da farli approdare nelle sedi giudiziarie, atteso che il tempo di quei permessi è dedicato ad un disabile, svolgendo funzioni e compiti dello Stato che vengono delegati ai singoli lavoratori caregiver.

La discriminazione legata alla “disabilità”
La questione trova il suo nucleo nella disciplina antidiscriminatoria per motivi legati al fattore “handicap”. Ai fini dell’erogazione delle voci retributive aggiuntive-premiali, oggetto di lite, gli accordi aziendali qualificano come effettiva presenza i giorni di permesso 104 fruiti dai lavoratori per cure a se stessi, al coniuge e ai figli; ma, alla luce degli stessi accordi aziendali, i giorni di permesso 104 fruiti per assistere altre categorie di parenti ed affini, pur aventi diritto ad essere assistiti secondo l’elenco di cui all’art. 33, Legge n. 104/92, sono considerati assenze dal lavoro e, dunque, non danno diritto alle voci retributive aggiuntive.
Nei vari gradi di giudiziosi è posta l’attenzione sull’accertamento della violazione del principio di parità di trattamento, limpidamente definito nel D.Lgs. n. 216/2003 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro).
In dettaglio, all’art. 2 del citato decreto, si definisce il principio di parità di trattamento quale assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale.
In termini di valore assoluto, il trattamento di minor favore, riservato ai lavoratori caregiver che utilizzano permessi per assistere familiari in condizioni di grave disabilità, secondo la definizione dell’art. 33, Legge n. 104/92, è chiaramente illegittimo, tenuto conto che quei permessi svolgono proprio la funzione di garantire assistenza, tutela e supporto ai disabili e, soprattutto, alle loro famiglie (sebbene oggi sia da aggiornare e da integrare).
L’esercizio di un dovere di assistenza non dovrebbe in alcun modo penalizzare chi lo esercita e non può essere accolta la tesi secondo cui a codesti lavoratori è comunque riconosciuta la retribuzione (minima tabellare come da CCNL).
Ricollegandosi ai principi costituzionali di uguaglianza formale e sostanziale e richiamandosi, inoltre, al valore fondante del lavoro nella società (Artt. 2, 3, 4, 35, 36 e 37 Cost.), riprendendo i capisaldi della regolazione di fonte eurounitaria (Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27.11.2000), le disposizioni contenute nella citata direttiva vanno ricondotte, secondo logica, al canone della c.d. parificazione, essendo il principio di “non discriminazione” funzionale al sostegno della condizione di maggior debolezza contrattuale che caratterizza il lavoratore che assiste familiari disabili rispetto al lavoratore “standard”.
In effetti, come si desume dalle finalità perseguite, indicate all’art. 1 della L. n. 104/1992, il caregiver è uno strumento attraverso il quale viene garantito al disabile il pieno godimento dei diritti che gli competono: sicché già solo ostacolare le funzioni del caregiver o semplicemente renderne l’esercizio non conveniente al lavoratore implica ostacolare il pieno godimento dei diritti del disabile; questo è già discriminatorio.
Le disposizioni “incriminate” dei contratti aziendali, in sostanza, apparentemente neutre e/o imparziali, applicandole anche ai lavoratori che usufruiscono dei permessi ex lege n. 104/92 (e che si assentano perciò solo per motivi legati alla disabilità), collocano gli indicati caregiver in una palese posizione di particolare svantaggio sia rispetto ad altri lavoratori che usufruiscono degli stessi permessi (ma per se stessi, per coniuge e figli) sia rispetto alla generalità dei lavoratori che, per loro condizione, non ne hanno bisogno non trovandosi nelle condizioni di “gestire” alcuna grave disabilità.

La sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 2217 del 2023
La sentenza n. 2217/2023 della Corte d’Appello, Sez. Lavoro, di Roma, nel caso esaminato, è particolarmente importante per avere creato un precedente giurisprudenziale nuovo, dopo anni di inutili precedenti tentativi processuali.
Il percorso giuridico è molto articolato e di estremo interesse, spaziando dal diritto eurounitario a quello internazionale e nazionale.
L’esito è consistito nell’accertamento giudiziario della condotta discriminatoria aziendale a danno dei lavoratori fruitori dei permessi ex lege n. 104/92, con contestuale riconoscimento del risarcimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale in loro favore e con l’ordine di immediata cessazione del comportamento discriminatorio.
D’altronde, ad ottobre 2022, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ha rilevato che l’Italia non assicura un quadro giuridico adeguato di tutela e assistenza per i caregiver familiari (il che, è già un paradosso, atteso che proprio l’Italia volle fortemente la Convenzione ONU sulla disabilità raggiunta in forma embrionale nel 1993 e nella versione definitiva nel 2006), riscontrando che l’incapacità dell’ordinamento giuridico nazionale di fornire servizi di supporto individualizzati a una famiglia di persone con disabilità è discriminatoria e viola i loro diritti al pieno godimento della vita familiare, a vivere in modo indipendente e ad avere adeguati ed elevati standard di vita (si consiglia, per approfondimenti, C. Carchio, L’ONU condanna l’Italia per violazione dei diritti umani dei caregiver familiari, su https://www.dirittoantidiscriminatorio.it/lonu-condanna-litalia-per-violazione-dei-diritti-umani-dei-caregiver-familiari/).
Sebbene possano esserci elevati livelli di assenteismo “cattivo” e anche di possibile abuso degli istituti in esame – i permessi mensili ex lege n. 104/92 -, il problema andrebbe affrontato e studiato a monte: innanzitutto, approntando seri sistemi di controllo su eventuali abusi; in secondo luogo, verificando e studiando soluzioni concrete per abbattere soglie di assenteismo “cattivo” e per accrescere i generali livelli di soddisfazione e di benessere sul posto di lavoro (v. F. Avanzi, Permessi L. 104/1992 e l’ossessione datoriale di “abuso del diritto”. La Cassazione fa chiarezza, su LPO News, https://www.lpo.it/2025/02/federico-avanzi/permessi-l-104-1992-e-lossessione-datoriale-di-abuso-del-diritto-la-cassazione-fa-chiarezza/; M. Salvagni, Licenziamento disciplinare e abuso dei permessi L. n. 104/92: il tempo dell’assistenza al disabile non si misura con il cronometro, su LPO News, https://www.lpo.it/2024/09/michelangelo-salvagni/licenziamento-disciplinare-e-abuso-dei-permessi-l-n-104-92-il-tempo-dellassistenza-al-disabile-non-si-misura-con-il-cronometro/).

La fase dinanzi alla Corte di cassazione
La sentenza n. 2217/2023 della Corte d’Appello, Sez. Lavoro, di Roma è stata, poi, oggetto di impugnazione da parte datoriale ed è oggi pendente dinanzi al Collegio della Suprema Corte di cassazione. Più precisamente, il Collegio, con l’ordinanza n. 1877/2024 del 26 settembre 2024, ha sospeso il giudizio in attesa della definizione del rinvio per questione pregiudiziale in Corte di giustizia dell’Unione Europea per la causa C-38/24 di analogo oggetto (per una esaustiva conoscenza del caso si consiglia RGL n. 4/2024, Giurisprudenza, con nota di M. Salvagni).
Nelle more della decisione della C. giust. UE, nel frattempo, si è anche pronunciato con una intensa memoria il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione chiedendo formalmente il rigetto del ricorso presentato dalla società e l’integrale accoglimento delle istanze dei lavoratori.
Il P.G. precisa, tra gli altri, che “secondo la Società la disciplina della Maggiorazione ERA – e la discriminazione indiretta che ne deriva a svantaggio dei disabili – si fonda su una causa lecita e legittima, giustificata da motivi oggettivi e ragionevoli volti al contenimento dei costi sul personale resisi indispensabili al fine di garantire la continuità e la stessa sopravvivenza di ATAC; e, nei fatti, ha determinato un efficientamento in termini di recupero della produttività a fronte di una maggior presenza in servizio.

Ora, non è seriamente discutibile che l’obiettivo di «incentivare» la presenza in servizio dei dipendenti sia legittimo alla luce della normativa nazionale ed unionale; né che «premi» incentivanti legati alla presenza siano un mezzo utile al fine, comunemente impiegato per fronteggiare l’assenteismo nelle grandi imprese già in epoca risalente.

V’è, tuttavia, che la Società non ha argomentato né addotto elementi di prova – diretti o indiretti – in ordine alla sussistenza di un tasso di evasione della disciplina della legge n. 104 tale da rendere «necessaria» una disciplina come quella in discussione al fine di incidere significativamente sul tasso di assenteismo, anche tenuto conto della percentuale di soggetti protetti nell’organico aziendale.

D’altro canto, a fronte della specifica, intensa tutela riservata dalla legislazione nazionale ed unionale in ragione della disabilità – in particolare il diritto a tre giorni al mese di assenza retribuita, anche continuativa, coperta da contribuzione figurativa (art. 33 legge n. 104) – risulta a prima vista sproporzionata la parificazione delle assenze per tale titolo alle assenze a qualunque altro titolo, anche in considerazione dei significativi effetti che ne derivano alla luce delle previsioni dell’Accordo sulla Maggiorazione ERA (…)”.

Focus sul diritto anti discriminatorio
L’argomento trattato rientra senza dubbio nell’alveo dell’ormai noto diritto antidiscriminatorio, di rango primario per l’essenziale importanza pratica che riveste nel mondo del lavoro e nella società.
Trattasi di un ramo del sapere giuridico che “afferma” ed acclara i diritti fondamentali legati alla “persona” in sè, nelle sue caratteristiche, peculiarità ed intime originalità individuali, meritevoli di protezione, ma è anche un ramo del diritto che, riprendendo lo schema del diritto penale e dei suoi principali concetti, sanziona in modo molto peculiare la condotta datoriale, con un onere della prova affievolito in capo al lavoratore discriminato. Infatti, l’art. 28, D.Lgs. n. 150/2011, dispone che “con la sentenza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.”.

Lo schema è molto vicino a quello del diritto penale e della “pena” quale sanzione giuridica pecuniaria (dissuasiva, effettiva e proporzionale) da infliggere per avere violato un “bene giuridico di rilevante interesse pubblico”, a prescindere dalla stretta dimostrazione del danno subito, tipico, invece, del diritto civile puro.
Trattasi di una sanzione pecuniaria molto simile a quelle amministrative (L. n. 689/1991) ed a quelle civili per i reati depenalizzati (D.Lgs. n. 7/2016). È, dunque, un sistema fondato sulla concretezza di un’automatica “afflittività” ma in funzione prevalentemente dissuasiva, deterrente, scoraggiante e, quindi, sicuramente provvido di risultati concreti.
Da diversi anni l’orientamento giurisprudenziale, anche con l’impulso di autorevole dottrina, è profondamente sensibile rispetto al trattamento di “protezione” da riservare ai soggetti “fragili” e ai loro caregiver. Tra le diverse pronunce più recenti, merita particolare attenzione, per attiguità tematica, la già citata Ordinanza n. 1788/2024 che, ripercorrendo in modo puntuale la vicenda del caso Coleman (sentenza della Grande Sezione della CGUE del 17 luglio 2008, Causa C-303/06) sulla tutela del caregiver familiare, rinvia alla C. giust UE in via pregiudiziale, sospendendo il giudizio interno.
Ma esiste, invero, ormai una ricca giurisprudenza che riconosce anche la fondamentale importanza degli “accomodamenti ragionevoli” per garantire il pieno esercizio del diritto e del dovere di lavorare ai soggetti disabili laddove il mancato riconoscimento degli stessi è qualificato come “discriminazione” vietata.
Tra le varie pronunce in tema di protezione delle “disabilità”, si rinvia, ex multis, a Cass. sentenza n. 605/2025; Cass. ordinanza n. 30080/2024; Cass. sentenza n. 14307/2024; Cass. ordinanza n. 47/2024; Cass. ordinanza n. 12649/2023; Cass. ordinanza n. 13934/2024; Cass. ordinanza n. 1552/2024; Cass. sentenza n. 6497/2021; Cass. ordinanza n. 6150/2019; Cass. sentenza n. 16298/2015 ed altre; Cons. Stato, Sez. III, sentenza n. 9322/2024.
In generale, nel mondo del lavoro è inderogabile ed indifferibile ormai un ritorno al “pensare per valori”, un ritorno ai fini universali che riguardano la dignità e i bisogni vitali dell’individuo; il diritto del lavoro che è il principe dei diritti “umani”, quale fonte e strumento di emancipazione individuale e di dignità e decoro della persona, non può più prescindere da certe profonde argomentazioni filosofico-politiche che pongono al centro degli interessi l’Uomo.
L’egoismo narcisista universale di questa epoca non si nasconde e, anzi, si dichiara ogni giorno in ogni contesto, anche tra simili e tra appartenenti alla stessa “compagine”. Il movimento operaio nato nella fabbrica aveva aggregato, unito, accomunato; oggi, anche quel contesto è stato fatto a pezzi e ogni lavoratore è homo homini lupus; in questa drammatica verità storica emerge con tutta la forza possibile la necessità di un ripristino dell’agire collettivo e sociale anche per mezzo e soprattutto dell’opera incessante e più ispirata dell’avvocatura e dell’amministrazione giudiziaria.