Prevenire lo stress sul lavoro: dalla formazione obbligatoria al whistleblowing. Verso una nuova cultura della sicurezza e della dignità

di Annalisa Rosiello e Domenico Tambasco
Come si previene, oggi, lo stress negli ambienti di lavoro? La domanda può apparire semplice, ma la risposta è tutt’altro che scontata, perché presuppone anzitutto di chiarire cosa si intenda per “stress lavorativo”.
Troppo spesso, infatti, si adotta una nozione riduttiva di stress, limitandolo al cosiddetto “stress lavoro-correlato”, ovverosia a quello non riconducibile a intenzionalità o a condotte ostili e conflittuali, e dunque distinto – e separato – da fenomeni quali il mobbing, lo straining e le molestie. Un approccio miope, che finisce per deresponsabilizzare le organizzazioni e rendere opaco un concetto che dovrebbe invece essere il fulcro della prevenzione.
Diversamente, occorre abbracciare una definizione più ampia e sistemica (si veda A. Rosiello, D. Tambasco, Il risarcimento del danno da stress lavorativo, Milano, 2024), che trovi fondamento nell’art. 2087 del codice civile, disposizione cardine in tema di tutela della salute e integrità psico-fisica del lavoratore, letta in connessione con l’art. 2086, che pone l’accento sulla necessità che l’assetto aziendale sia adeguato “alla natura e alle dimensioni dell’impresa”. In questa prospettiva, lo “stress” non è solo un sintomo, ma l’esito di oggettive – e quantomeno colpose – disfunzioni strutturali che investono tanto la quantità del lavoro (sovraccarichi, turni massacranti, usura psico-fisica), quanto la sua qualità (assenza di work-life balance, discriminazioni, ambienti insalubri) o, ancora, le dinamiche relazionali (persecuzioni, conflitti, molestie).
Prevenire, dunque, significa in primo luogo vedere – e riconoscere – lo stress per quello che realmente è: la manifestazione più eloquente di un ambiente di lavoro tossico e nocivo.
Ma significa anche agire.
Le fonti normative, a tal riguardo, non mancano. L’art. 28, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008 impone una valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza, compresi quelli di natura psicosociale; l’art. 26, comma 3-ter, del D.Lgs. n. 198/2006 richiama la necessità di una formazione estesa anche alle molestie lavorative; le linee guida internazionali UNI ISO 45003 spingono per un approccio inclusivo alla gestione del benessere lavorativo.
In quest’ottica, è quindi importante focalizzare le tre direttrici fondamentali in cui si articola l’obbligo prevenzionistico. Possiamo distinguere, in particolare:
- La valutazione preventiva dei rischi psicosociali, che si sostanzia principalmente nella redazione del DVR aziendale;
- Il monitoraggio continuo dell’ambiente di lavoro;
- La formazione e informazione del personale.
È su quest’ultima direttrice che si registra oggi una novità significativa. Il 17 aprile 2025, la Conferenza Stato-Regioni ha approvato un nuovo Accordo in attuazione dell’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, che ridefinisce i contenuti della formazione obbligatoria in materia di sicurezza. Seppur tra qualche incertezza semantica (lo “stress lavoro-correlato” permane nella sua nozione ridotta), si riconosce espressamente la rilevanza dei rischi psicosociali: mobbing, burnout, diversità culturali, familiari e sociali, usura psicofisica, molestie sul lavoro.
Proprio su quest’ultimo profilo si innesta l’innovazione più profonda. In linea con la Convenzione ILO n. 190/2019 sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro (ratificata in Italia con L. n. 4/2021), l’Accordo prescrive la formazione obbligatoria – per tutti i soggetti della prevenzione: datori, dirigenti, preposti, RSPP, lavoratori – sulle molestie “intese in senso ampio” come “un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere” (art. 1 Conv. 190/2019 ILO). Una definizione che include mobbing, straining, stalking, bossing, singole molestie e aggressioni sul lavoro in un’ottica finalmente integrata.
Formare, dunque, significa prevenire. Ma non basta.
Occorre infatti che la cultura della sicurezza si accompagni a un monitoraggio costante e partecipato. Non più e non solo verticistico e centralizzato, ma anche orizzontale, dal basso, alimentato dalla consapevolezza e dalla collaborazione diffusa dei lavoratori e delle lavoratrici. In questa cornice, il nuovo istituto del whistleblowing, come riformato dal D.Lgs. n. 24/2023, potrebbe assumere un ruolo strategico anche nella prevenzione dei rischi legati alla salute e sicurezza sul lavoro, ampliando il proprio ambito rispetto alla tradizionale funzione di contrasto ai fenomeni corruttivi.
Pensiamo al caso di un dipendente che, tramite canale riservato, segnali la sistematica elusione delle misure antinfortunistiche, la mancanza di dispositivi di protezione o la presenza di un ambiente di lavoro molesto e stressogeno. Una segnalazione ben circostanziata costituisce – ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 24/2023 – una “informazione su violazioni commesse o che potrebbero essere commesse”, e può rientrare tanto nella violazione dei modelli organizzativi 231 e dei codici etici aziendali quanto, più specificamente, nella fattispecie del reato-presupposto previsto dall’art. 25-septies del D.Lgs. n. 231/2001 (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro).
Siamo di fronte, dunque, alla “logica della prossimità”: solo chi è vicino alle prassi può intercettarne le derive. Ecco perché la segnalazione interna rappresenta un fondamentale presidio etico e organizzativo (sia permesso rinviare al recente contributo collettivo a cura di R. Cantone, N. Parisi, D. Tambasco, Whistleblowing. Commento sistematico alla disciplina del d.lgs. n. 24/2023, Milano, 2025).
Come evidenziato da ANAC, infatti, la segnalazione interna di whistleblowing consente una più efficace prevenzione e accertamento delle violazioni, attraverso l’acquisizione di informazioni pertinenti da parte dei soggetti più prossimi all’origine delle disfunzioni organizzative, valorizzando così il ruolo attivo e consapevole dei lavoratori quali co-protagonisti della legalità e del buon funzionamento dell’ente (anac, Linee guida in materia di protezione delle persone che segnalano violazioni, 2024, p. 6). La persona segnalante diviene così agente attivo di cambiamento e non voce disturbante da emarginare.
Una seconda novità estremamente significativa, che si inscrive nella stessa direzione di una partecipazione diffusa e orizzontale dei lavoratori, è costituita dal recente D.d.L. n. 1407/2025 (“partecipazione”), approvato in via definitiva dal Senato il 14 maggio. Il disegno di legge di iniziativa popolare rappresenta un passo decisivo verso una maggiore incidenza dei lavoratori nella gestione delle aziende, promuovendo un modello di impresa inclusivo e democratico, pienamente coerente con i principi costituzionali di bilanciamento degli interessi sociali e aziendali (artt. 3 e 41, secondo comma Cost.).
Le misure proposte intendono rafforzare il coinvolgimento dei lavoratori e delle parti sociali nelle decisioni quotidiane, incentivando una collaborazione effettiva nella definizione delle strategie aziendali. Ciò è finalizzato non solo ad aumentare la produttività, ma soprattutto a garantire un reale miglioramento del benessere organizzativo, inteso come condizione necessaria per la tutela della dignità e della salute psico-fisica dei lavoratori.
In questa prospettiva, si segnala l’importanza degli artt. 7, 8 e 12 del testo di legge, e in particolare:
- L’articolo 7 introduce commissioni paritetiche, composte da rappresentanti aziendali e lavoratori in egual numero, con il compito esplicito di formulare proposte di miglioramento riguardanti l’organizzazione del lavoro, i processi produttivi e l’innovazione dei prodotti e servizi. Tali commissioni possono rappresentare anche una significativa leva di prevenzione dei rischi psicosociali, in quanto permettono ai lavoratori di intervenire direttamente e preventivamente sulle disfunzioni organizzative che spesso costituiscono la radice stessa dello stress lavorativo.
- L’articolo 8 prevede la possibilità di designare referenti aziendali specifici (attraverso contratti collettivi aziendali), quali mobility manager, diversity manager, disability manager e consiglieri di fiducia, per la gestione attiva di problematiche delicate quali welfare aziendale, politiche retributive, conciliazione vita-lavoro, diversità e inclusione. Tali figure, se adeguatamente formate e sostenute, possono svolgere una funzione cruciale nel mitigare le condizioni di disagio e stress legate a fragilità personali, familiari e sociali, promuovendo concretamente il benessere organizzativo.
- Infine, l’articolo 12 dedica particolare attenzione alla formazione dei rappresentanti dei lavoratori, prevedendo corsi obbligatori di almeno dieci ore annue, finanziati tramite enti bilaterali, il Fondo Nuove Competenze e i fondi interprofessionali. Questa previsione sottolinea quanto sia strategicamente fondamentale una preparazione adeguata dei delegati, affinché essi possano intervenire efficacemente anche nella prevenzione e gestione delle situazioni lavorative stressogene e moleste, contribuendo in modo concreto al miglioramento delle condizioni di lavoro e alla tutela della salute psicofisica dei lavoratori.
In definitiva, questo quadro normativo in via di definizione completa idealmente l’approccio preventivo allo stress lavorativo, integrando alla fondamentale formazione individuale e alle procedure di whistleblowing, anche una più incisiva ed efficace partecipazione diretta dei lavoratori nelle scelte organizzative e strategiche aziendali.
Tornando al tema principale, non è quindi più tempo di considerare la “resistenza allo stress” come una dote professionale, quasi che la capacità di sopportare in silenzio carichi, pressioni e molestie indebite costituisca un criterio di valore. Un simile approccio, oggi, risulta non solo superato, ma anche dannoso, perché assolve le organizzazioni dalle proprie responsabilità e “normalizza” la sofferenza individuale.
Prevenire lo stress lavorativo richiede, invece, un autentico cambio di paradigma: dall’idea di adattamento individuale a un modello improntato alla responsabilità condivisa, dove la salute psico-fisica delle persone non è più una questione privata, ma un interesse collettivo da presidiare.