Mobbing, stress, eristress: il valore della parola esatta

di Domenico Tambasco
Corte di cassazione, ordinanza 23 aprile 2025, n. 10730; Tribunale di Rovigo, Sez. Lav., sentenza 21 marzo 2025, n. 88
La lettura di due recenti pronunce, rispettivamente della Corte di cassazione e del Tribunale di Rovigo, riporta alla mente le riflessioni che, alcuni anni orsono, Natalino Irti (Riconoscersi nella parola, Bologna, 2020, 20 e ss.) dedicava alla natura del diritto: la sua assoluta linguisticità, la centralità dei nomi assegnati alle cose, quale elemento morfologico e costitutivo dell’esperienza giuridica. Nomen est cognitio rerum, ammoniva Linneo: senza il sigillo del nome, le cose non diventano oggetto di conoscenza, ma restano eventi oscuri, immersi in un regno inumano.
Osserviamo dunque da vicino in cosa consista questa speciale forma di conoscenza.
Mobbing e sovraccarico da lavoro
Una funzionaria dell’Ispettorato del Lavoro conveniva in giudizio il Ministero del Lavoro e la ITL territorialmente competente lamentando di aver subito mobbing o comunque straining dal datore di lavoro, a causa dell’indisponibilità manifestata al Direttore dell’Ufficio (di cui curava la segreteria) a ricoprire l’ulteriore incarico di responsabile del servizio ispettivo, in ragione delle proprie condizioni di salute. A supporto di ciò, tra le varie doglianze, la ricorrente faceva leva in particolare sull’indifferenza mostrata verso la propria condizione psicofisica e sulla intollerabilità del sovraccarico di lavoro, non supportato da adeguata formazione, da cui sarebbe derivata una sindrome invalidante del 40%.
Fermiamoci un attimo, perché proprio qui sta il nodo del problema.
L’asserita natura persecutoria delle condotte datoriali viene ricondotta dalla ricorrente a due fattori di rischio che però, costitutivamente, non hanno nulla di doloso: l’inidoneità delle mansioni alla capacità e alle condizioni psico-fisiche del prestatore di lavoro (art. 18, comma 1, lett. c) D.Lgs. n. 81/2008) e lo svolgimento delle prestazioni lavorative oltre la normale tollerabilità (superlavoro o usura psico-fisica).
Siamo di fronte a una obiettiva situazione disfunzionale che – almeno tendenzialmente – non può essere il frutto di una intenzionalità lesiva ma, al contrario, integra i presupposti di un ambiente lavorativo potenzialmente nocivo e stressogeno, la cui responsabilità potrebbe eventualmente essere ascritta al datore di lavoro per una colposa e negligente organizzazione dei fattori produttivi.
In termini giuridici, la mancata ottemperanza al dovere incombente sul datore di lavoro di “istituire un assetto organizzativo…adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” (art. 2086 c.c.) espresso dall’assegnazione di mansioni inidonee e dall’inadeguato riparto dei carichi di lavoro, si pone in connessione eziologica (oltreché normativa, delineando una sorta di “cinghia di trasmissione”) con la responsabilità ex art. 2087 c.c. per l’omessa tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro.
Il difetto sta nel manico: la prospettazione data dalla dipendente nel ricorso introduttivo (responsabilità per mobbing o straining) è fuorviante, perché pone il proprio focus su una dinamica persecutoria che non è nella realtà dei fatti da lei stessa denunciati. È come se si confezionasse un abito di molte taglie più grande rispetto al corpo da vestire; d’altro canto, appare francamente sproporzionata (e poco plausibile), la denuncia di mobbing rispetto a ritmi lavorativi intollerabili o a mansioni ritenute inadeguate alle proprie condizioni psico-fisiche.
Torniamo quindi al punto di partenza ovvero alla centralità, nel mondo del diritto inteso quale “linguisticità assoluta”, della parola esatta, del verbo che più che rappresentare la sostanza del mondo, si identifica con esso fino a diventare “cosa”.
L’esattezza del linguaggio, che nelle visionarie “Lezioni Americane” di Italo Calvino rappresenta una delle cinque qualità essenziali della lingua del nuovo millennio, nel caso di specie determina le sorti giudiziali della lavoratrice: soccombente, finché si parla di mobbing o straining; prevalente, quando si passa all’utilizzo delle categorie dello stress e dell’ambiente stressogeno per definire la natura delle cose.
Ecco, allora, che ai plurimi rigetti nei due gradi di merito per l’inesistenza di una “molteplicità di comportamenti con efficacia persecutoria sistematica e prolungata nel tempo” fa da controcanto l’accoglimento degli Ermellini, sull’ormai consolidato presupposto secondo cui “In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di mobbing, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (cfr. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692; conf. Cass. 31 gennaio 2024, n. 2870; Cass. 28 dicembre 2023, n. 36208).
Si tratta di un’importante ricaduta di ordine processuale, che involge la qualificazione della domanda giudiziale: anche in presenza di una specifica domanda di mobbing, infatti, il Giudice può autonomamente procedere alla riqualificazione – eventualmente applicando norme di legge diverse da quelle invocate dal ricorrente – valutando la violazione del dovere generale di tutela ex art. 2087 c.c. sul piano dell’ambiente di lavoro nocivo e stressogeno e, laddove accertato, condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno patito dal prestatore (cfr. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692, cit.; D. Tambasco, A. Rosiello, Il risarcimento del danno da stress lavorativo. Nuove forme di tutela nell’era del lavoro digitale, Milano, 2024, 22).
Conflittualità sul lavoro e licenziamentoPassiamo ad un caso radicalmente diverso per presupposti e per effetti, affrontato recentemente dalla Sezione Lavoro del Tribunale di Rovigo.
Siamo all’interno di una scuola cattolica, nell’ambito della programmazione delle attività educative da parte degli organi di indirizzo e di controllo. Come in ogni contesto lavorativo, sorgono dei conflitti da cui nasce quella che il giudice definisce una “difficoltà relazionale” tra la Direzione, la Presidenza e il Consiglio di Direzione. Vengono revocate alcune deleghe alla Direttrice; questa, dal canto suo, solleva il Presidente dall’incarico di vicedirettore. Il presidente, per tutta risposta, invia una mail ad una società esterna di consulenza del lavoro nella quale elenca le mancanze della Direttrice. Presidenza e Direzione non collaborano più: è scontro totale. Il conflitto viene messo all’ordine del giorno in un Consiglio di Direzione. Lo scontro raggiunge il culmine in Consiglio, con la Direttrice che, a seguito di una domanda del Presidente, lo apostrofa con l’epiteto di “imbecille”, bollando i consiglieri come “omertosi”. Scatta quindi il licenziamento disciplinare per giusta causa nei confronti della Direttrice, che lo impugna in sede giudiziale.
Anche in questo caso l’esattezza terminologica è essenziale, non per ascrivere una responsabilità (come nel caso precedente), bensì per circoscriverla.
Al centro della scena c’è il conflitto, che, come visto, si sostanzia in una “relazione difficile” tra la Direzione, il Presidente della scuola e i componenti del Consiglio di Direzione. Non si parla, nemmeno in questo caso, né di mobbing né di altre dinamiche persecutorie, bensì di “difficoltà relazionale” in cui “deve essere inquadrata e ridimensionata” la “emotiva e istintiva reazione” della ricorrente, tenuto conto del fatto che le frasi proferite non si sono rivelate minacciose ma, al contrario, sono state pronunciate “all’interno di un Consiglio i cui componenti ben conoscevano i difficili rapporti intercorrenti tra la stessa e il Presidente, da essere più volte stati inseriti nell’ordine del giorno”.
La rilevanza del clima di tensione, generato da una costante conflittualità reciproca (che può tradursi in un “circolo vizioso senza termine”, cfr. Cass., 4 gennaio 2025, n. 123) in questo caso rileva al fine di graduare il giudizio di proporzionalità della condotta disciplinarmente illecita. Infatti, fermo restando il disvalore della condotta della lavoratrice, il Tribunale di Rovigo accerta come i fatti addebitati “non rivestano una gravità tale da ritenere sussistente la proporzionalità tra la sanzione irrogata e la condotta contestata”, con conseguente difetto della dedotta giusta causa del licenziamento.
Pur mancando un espresso riferimento nella pronuncia in commento, il caso si colloca nel perimetro dello stress da conflittualità lavorativa, ampiamente riconosciuto da una consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., 19 gennaio 2024, n. 2084; Cass., 31 gennaio 2024, n. 2870; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3791; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3822; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3856; Cass., 16 febbraio 2024, n. 4279; Cass. 21 febbraio 2024, n. 4664; Cass. 26 febbraio 2024, n. 5061), fenomeno a cui la psicologia del lavoro ha dato il nome di eristress.
Si tratta, in particolare, di una specifica disfunzione organizzativa degli ambienti di lavoro sul piano dei rapporti interpersonali, che integra “una situazione lavorativa di alta conflittualità caratterizzata da un’accesa litigiosità che, come potenza e come durata, supera un semplice e unico diverbio. La situazione lavorativa è dominata da una condizione conflittuale che si distingue per la sua rivalità rispetto ad una condizione collaborativa. Lo stress esercitato dalla conflittualità può scatenare conseguenze negative a livello psicosomatico sia sui partecipanti attivi al conflitto sia sugli spettatori passivi che assistono a tale situazione” (H. Ege, Eristress. Lo Stress da conflittualità, Milano, 2024).
Di fatto, in questo caso non c’è nessun autore protagonista bensì una situazione ambientale nociva e stressogena, la cui tolleranza da parte del datore di lavoro costituisce di per sé un fattore decisivo ai fini dell’attenuazione della responsabilità di uno dei “contendenti” nel conflitto.
D’altro canto, la sentenza del Tribunale di Rovigo si colloca nell’alveo di un significativo orientamento giurisprudenziale che, sulla base di un’attenta e obiettiva analisi dei fattori organizzativi, ha ripetutamente riconosciuto che il contesto di lavoro stressogeno in cui si siano realizzate le reazioni impulsive e istintive del dipendente, pur non escludendo l’obiettiva rilevanza disciplinare delle condotte, può incidere sulla valutazione in termini di disvalore (ovvero di minore gravità dei fatti) e, conseguentemente, orientare la dichiarazione giudiziale di sproporzione del provvedimento espulsivo (cfr. Cass. 2 maggio 2022, n. 13744; Trib. Cremona, Sez. Lav., ord. 3 ottobre 2023, in D. Tambasco, A. Rosiello, Il risarcimento del danno da stress lavorativo. Nuove forme di tutela nell’era del lavoro digitale, op. cit., 105-106).
Il giusto uso del linguaggio
Tiriamo le fila di questa breve analisi.
Ancora una volta, nelle decisioni sia della giurisprudenza di legittimità sia di quella di merito, assume rilievo centrale l’analisi obiettiva dell’ambiente di lavoro. Si tratta di un nuovo modo di giudicare, fondato sull’attenta valutazione dei fattori organizzativi (carichi di lavoro, adeguatezza delle mansioni rispetto alle condizioni psico-fisiche del dipendente, natura dei rapporti interpersonali) che, attraverso la documentazione versata in atti e le testimonianze acquisite in corso di causa, orientano lo scrutinio del giudice, oggi concentrato sulle oggettive disfunzioni dell’ambiente di lavoro nocivo e stressogeno. È un definitivo ribaltamento di prospettiva, che allontana il processo del lavoro dalla vana ricerca di intenti persecutori praticamente impossibili da accertare.
Non il dolo, ma la colpa organizzativa diventa l’autentica protagonista di questo cambio di paradigma, veicolato dalla forza della parola esatta: “il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza parole” (I. Calvino, Lezioni americane, Milano, 1988, 76).