Cassazione n. 5813/2022: non è imputabile al lavoratore la mancata revoca della sospensione dal servizio a seguito della sua assoluzione nel procedimento penale

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Sommario:

1. La fattispecie oggetto della sentenza.

2. Il ricorso per cassazione.

3. La decisione in commento.

4. Conclusioni.

Corte di Cassazione, Sez. Lav., sentenza 22 febbraio 2022, n. 5813

1. La fattispecie oggetto della sentenza.

Un’agente di polizia locale di Brescia veniva condannata dal locale Tribunale per la commissione del reato di peculato (art. 314 c.p.) per avere utilizzato illecitamente strumenti ed utenze del Comando di polizia municipale che erano nella sua disponibilità per ragioni di servizio, al fine di porre in essere molestie e disturbo nei confronti di due cittadini.

Il Comune aveva a suo tempo aperto un procedimento disciplinare, poi sospeso in attesa della decisione del giudice penale.

Ricevuta la comunicazione della sentenza il Comune aveva sospeso dal servizio la dipendente a far data dal 24 maggio 2013 ai sensi dell’art. 4 della legge 97/2001 e dell’art. 61, co. 5, del ccnl enti locali, con conseguente corresponsione dell’indennità pari al 50% della retribuzione.

In esito dell’appello, con sentenza resa in data 3 marzo 2014 (e motivazioni depositate il successivo 11 marzo), l’agente veniva assolto ma il legale della lavoratrice comunicava l’intervenuta sentenza – che si afferma divenuta definitiva il 27 giugno 2014 (punto 2 storico di lite, 4° linea) – solo il 10 aprile 2016 a seguito, si dice, contraddittoriamente, di sentenza della Corte di cassazione  resa il 28 gennaio 2016 (punto 6 dello storico di lite), chiedendo la corresponsione integrale delle retribuzioni ed il risarcimento del danno.

Il Comune riattivava il procedimento disciplinare che si concludeva con l’applicazione di un mese di sospensione.

Nel contempo veniva aperto un nuovo procedimento disciplinare avente ad oggetto l’assenza, ritenuta ingiustificata, dal servizio per il periodo dal giorno successivo a quello della data di assoluzione da parte del giudice di appello (12 marzo 2014) al 25 aprile 2016 (punto 2, storico di lite, penultima linea), procedimento che si concludeva con il licenziamento dell’agente.

Sia il primo che il secondo giudice, investiti del ricorso della lavoratrice avverso tali provvedimenti, li ritenevano giustificati. Sul licenziamento, in particolare, la Corte di appello riteneva, richiamando il dovere di collaborazione del dipendente, che la lavoratrice avrebbe dovuto comunicare la sua assoluzione dalla data del dispositivo reso dalla Corte di appello o da quella del deposito della sentenza e, al limite, dal quella della pronuncia della Cassazione, mentre lo ha fatto solo in data 10 aprile 2016 (se ne dedurrebbe, quindi, che la definitività della sentenza di appello, che come visto si legge darebbe avvenuta il 27 giugno 2014, sia frutto di un errore, che comunque non incide sulla decisione, salvo quanto si dirà di seguito).

Viceversa, la lavoratrice aveva senza motivo ritardato la comunicazione restando assente per un periodo comunque superiore al periodo previsto dall’art. 55 quater, comma 1, lett. b (tre giorni nell’arco di un biennio o sette negli ultimi dieci anni), per di più percependo, senza fornire la prestazione, la rendita vitalizia del 50% della retribuzione.

2. Il ricorso per cassazione.

La lavoratrice ricorreva in cassazione deducendo la violazione dell’art. 154 ter disp. att. c.p.p. (e degli artt. 97, commi 3 e 4, del DPR n. 3 del 1957), nonché «motivazione insufficiente e contradditoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio», costituito dall’avere posto a suo carico l’obbligo di comunicare alla amministrazione la sentenza di assoluzione del giudice penale.

Più in particolare, osservava che è onere dell’amministrazione attivarsi per far cessare lo stato di sospensione cautelare del rapporto e che l’art. 154 ter pone a carico della cancelleria del giudice penale la comunicazione della sentenza, indipendentemente dall’esito del processo.

Censurava inoltre il giudizio di «estrema gravità» del giudice di merito, posto che la stessa aveva atteso la comunicazione della amministrazione, nella convinzione che l’ufficio del giudice penale avesse provveduto alla comunicazione.

3. La decisione in commento.

In discussione nel procedimento di cui alla sentenza commentata era unicamente il licenziamento (sentenza, punti 5 dello storico di lite e 5.2 motivazione) comminato per l’assenza ingiustificata dal servizio della dipendente nel periodo che intercorre tra la lettura del dispositivo di assoluzione da parte della Corte di appello di Brescia 12 marzo 2014 al 25 aprile 2016.

Il licenziamento viene ritenuto ingiustificato.

Nella sentenza si ricorda che la sospensione cautelare in presenza di un procedimento penale per taluni reati (tra i quali quello di peculato), costituisce un obbligo per la pubblica amministrazione e che la sospensione stessa perde efficacia in caso di assoluzione o di proscioglimento del dipendente, anche con sentenza non definitiva, salvo procedere, ove ne ricorrano i presupposti, alla sospensione facoltativa il dipendente nelle more che si concluda il giudizio penale e previa esplicazione del motivo per il quale la prosecuzione del servizio sia – o possa divenire – fonte di danno, anche d’immagine, all’ente pubblico.

In assenza di un provvedimento formale in tal senso, non è ipotizzabile, afferma la Corte, un’assenza ingiustificata del dipendente, poiché, «in applicazione dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione”, non può imputarsi al lavoratore un onere che spetta alla amministrazione.

La Corte precisa anche – con riferimento poi alla valutazione di gravità del comportamento del lavoratore fatta dal giudice di merito – che l’art. 154 ter disp. att. c.p.p. «non è limitato alle sentenze di condanna, ma si riferisce a tutte le sentenze penali, indipendentemente dal contenuto del dispositivo».

La Corte cassa quindi la sentenza rinviando al giudice di merito – questa volta individuato nella Corte di Milano – per un nuovo esame alla luce dei principi stabiliti.

4. Conclusioni.

La decisione della Corte pare certamente condivisibile in astratto. L’art. 154 ter disp. att. cpp è del tutto chiaro nel prevedere che la «cancelleria del giudice che ha pronunciato sentenza penale nei confronti di un lavoratore dipendente di un’amministrazione pubblica ne comunica il dispositivo all’amministrazione di appartenenza», senza distinguere in alcun modo se il provvedimento sia di assoluzione o di condanna, ovvero con altro diverso contenuto.

È del tutto impensabile, considerato il tenore della norma, che debba essere il lavoratore che si fa carico di avvertire la amministrazione dell’esito del giudizio, salvo che non vi abbia specifico interesse.

In tal senso, del resto, si era già pronunciata la Sezione lavoro, con la sentenza 19.03.2019 n. 7657 nella quale si legge: «Il legislatore, al fine di consentire alle Pubbliche Amministrazioni di avere tempestiva notizia dei processi penali avviati a carico di dipendenti pubblici e del loro esito, ha imposto precisi oneri di comunicazione a carico del Pubblico Ministero (art. 129 disp. att. c.p.p.) e della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento (art. 154 ter disp. att. c.p.p.) e con l’art. 97 [la contrattazione collettiva] aveva anche attribuito all’impiegato pubblico il potere di far decorrere termini sensibilmente ridotti per la riattivazione, provvedendo egli alla notifica della sentenza stessa all’amministrazione».

Dunque, se si afferma che la notifica della sentenza all’amministrazione da parte del dipendente è una facoltà, non si può poi trasformarlo in un obbligo.

Altro discorso può invece farsi con riferimento al caso concreto, posto che la sentenza, come si è evidenziato, è tutt’altro che chiara sullo svolgimento dei fatti. In prima battuta si legge infatti, come si è visto, che la sentenza di assoluzione in appello è stata resa, con lettura del dispositivo, il 3 marzo 2014, il deposito della motivazione è avvenuto l’11 marzo successivo e la sentenza sarebbe divenuta definitiva il 27 luglio 2014 e, subito dopo, che vi sarebbe stata la fase di legittimità con, deve ritenersi, la conferma della sentenza di assoluzione della Corte di appello.

Se così è, pare evidente che l’attesa di oltre due anni da parte della lavoratrice nel comunicare la sua assoluzione non pare oggettivamente giustificata. Se infatti è vero che l’onere di attivarsi per la ripresa del servizio del lavoratore sospeso e assolto nel processo penale non ricade sul lavoratore, è altrettanto vero che ciascun dei due contraenti è tenuto a cooperare per l’adempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.).

E nel caso specifico, non vi è dubbio che la lavoratrice, decorso un ragionevole periodo di tempo dopo l’assoluzione, a fronte del silenzio dell’amministrazione, fosse tenuta a verificare le ragioni del silenzio dell’amministrazione, tanto più che il suo stato di inattività comportava un esborso economico pari al 50% della retribuzione, pur in assenza di qualsivoglia prestazione, con conseguente aggravio del bilancio dell’ente.

Né potrebbe giustificare il comportamento omissivo posto in essere l’attesa della conferma della sentenza di appello in sede di legittimità, sia perché la norma è chiara nel prevedere la revoca della sospensione dal servizio anche in caso di proscioglimento o assoluzione a seguito di sentenza anche non definitiva, sia perché la lavoratrice era assistita dal legale al quale chiedere chiarimenti.

Certo, queste circostanze, se e nella misura in cui siano state versate nel processo, saranno vagliate dal giudice del rinvio.

Resta comunque che la sentenza di legittimità dovrebbe essere chiara nell’illustrare tutti gli aspetti della causa con chiarezza, evitando ricostruzioni confuse e contraddittorie, posto che chi legge deve essere posto in condizioni di conosce con precisione il fatto in relazione al quale viene applicato il principio di diritto reso dalla Cassazione.

Solo così il lettore può farsi un’idea chiara della sua applicabilità in concreto in fattispecie analoghe.