È risarcibile il danno da mancata assunzione a causa dell’orientamento sessuale della docente in un istituto religioso

Costituisce comportamento discriminatorio la mancata assunzione di una docente determinata dal suo orientamento sessuale, nonostante la scelta sia stata adottata da un istituto religioso.

È quanto deciso dalla Suprema Corte, sentenza n. 31071 del 2 novembre 2021 (APRI), la quale, confermando l’arresto della Corte di Appello di Trento, ha ritenuto che la libertà di organizzazione dell’istituto non possa legittimare condotte apertamente discriminatorie e lesive della dignità  umana  nonché  intrinsecamente  umilianti  per  il destinatario.

Tuttavia la sentenza ha il pregio di chiarire in che termini è risarcibile il danno da siffatta discriminazione e quali siano i soggetti legittimati attivi all’azione giudiziaria.

In particolare i giudici di legittimità hanno confermato la condanna del medesimo istituto religioso all’immediata cessazione della condotta discriminatoria oltre al pagamento in favore della lavoratrice di euro 13.329,00 a titolo di danno patrimoniale ed euro 30.000,00 a titolo di danno morale, nonché, in favore della CGIL e di un’altra Associazione agente, a titolo di risarcimento del danno, di euro 10.000,00 ciascuna, oltre alle spese di rito liquidate in ulteriori euro 7.000,00.

Procedendo con ordine, la pronuncia in parola, tra i diversi motivi di diritto presi in considerazione, si contraddistingue per offrire all’operatore del diritto delle importanti chiavi ermeneutiche pratiche in materia di discriminazione e risarcibilità del danno non patrimoniale.

In particolare si é avuto modo di ribadire che in materia di liquidazione del danno non patrimoniale é pienamente ristorabile la lesione di valori costituzionalmente garantiti, dei diritti inviolabili e dei diritti fondamentali della persona, in particolare dei diritti all’integrità psico-fisica e alla salute, all’onore e alla reputazione, all’integrità  familiare,  allo  svolgimento  della  personalità  ed  alla  dignità umana.

Sicché, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale   non   può   mai   giungere alla   relativa   esatta  quantificazione, ma si impone una doverosa valutazione equitativa da parte del giudicante (per tutte: Cass., SS.UU. n. 26972 del 2008).

Comunque sia, quest’ultima valutazione, necessariamente conforme a criteri di adeguatezza e proporzionalità (Cfr. Cass. n. 12408 del 2011), deve tenere in considerazione tutte le circostanze concrete del caso specifico, “al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento” (Cfr. Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.; Cass. n. 7740 del 2007; Cass. n. 13546 del 2006);

Ne consegue che una siffatta liquidazione operata dal Giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità solamente laddove risulti “non congruamente motivate”, dovendo di essa “darsi una giustificazione razionale a posteriori” (Cfr. Cass. n. 12408/2011 cit.).

Tale ristoro, dunqe, caratterizzato “da un certo grado di approssimazione”, può essere soggetto a controllo in sede di legittimità qualora vi sia “totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione” o di “macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni” (cfr. Cass. n. 12918 del 2010; Cass. n. 1529 del 2010; Cass. n. 18778 del 2014).

Le considerazioni sin qui svolte sono applicabili anche alla cd. “discriminazione collettiva”, dal momento in cui la Corte di Appello di Trento ha ristorato un danno di natura non patrimoniale alle organizzazioni ricorrenti ancorché vi fosse assenza di qualsivoglia   allegazione   circa   perdite  in   effetti  patite da queste.

Si ritiene pertanto che il Giudice, anche in questo caso, ha un’ampia discrezionalità nell’esercizio del proprio potere equitativo, con l’unica differenza che si dovrà tener conto della lesione degli interessi rappresentati dalle due associazioni quali “enti esponenziali di interessi collettivi”.

Non da ultimo, la pronuncia, compiendo un apprezzabile sforzo ricostruttivo, poggia il proprio arresto interpretativo anche richiamando il decisum della Corte di Giustizia, Grande Sezione, nella sentenza 23 aprile 2020, causa C-507/18; secondo la quale l’art. 9, par. 2, della Direttiva 2000/78 non osta a che uno Stato membro, nella propria normativa nazionale, “riconosca alle associazioni aventi un legittimo interesse a far garantire il rispetto di tale Direttiva il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti dalla Direttiva stessa senza agire in nome di una determinata persona lesa ovvero in assenza di una persona lesa identificabile”.