Lavoro di cura giuridicamente riconosciuto e non

Sommario: 1. Il lavoro non riconosciuto. – 2. Il lavoro di cura. – 3. Il lavoro di cura alla persona. – 4. Il lavoro domestico.

1. Il lavoro non riconosciuto.

Per trattare questo tema restando su di un piano non fazioso e giuridicamente utile, è importante muovere dal presupposto che il lavoro è per definizione riconosciuto, anzi si pone come tale a fondamento della nostra Costituzione democratica, anche quando si tratti di lavoro volontario, e consiste nel contribuire al progresso materiale e spirituale della società. Il lavoro riconosciuto è tale anche in termini previdenziali: a ogni posizione lavorativa corrisponde una posizione previdenziale, anche se non tutte le attività trovano nel nostro ordinamento una copertura previdenziale obbligatoria (per esempio alcune attività autonome, imprenditoriali, o di volontariato non sono coperte per legge dalla previdenza di base – INPS – e sta al singolo scegliere di dotarsi o meno di una formula previdenziale privata integrativa) e, di riflesso, il cittadino inabile al lavoro, per vecchiaia o inabilità, ha diritto a che gli siano forniti i mezzi di sussistenza per sé e la propria famiglia (articolo 38 Cost.). Il nostro ordinamento dispone che i cittadini contribuiscano attivamente ad aiutare e supportare coloro che non possono lavorare, temporaneamente o definitivamente (come per il caso degli anziani), infatti, sostanzialmente, chi lavora, paga il mantenimento di chi non può lavorare. Questo è ciò che chiamiamo sistema previdenziale a ripartizione, e rappresenta quella parte ordinamentale della società che contribuisce ad attuare il principio di solidarietà (articolo 2 Cost.).

Prima ancora di considerare il lavoro di cura bisogna chiedersi cosa sia, allora, il lavoro “non” riconosciuto.

Non può trattarsi del lavoro volontario, che lungi dall’essere un lavoro non riconosciuto, è anzi oggetto di una legislazione quadro che lo promuove (Legge n. 266 del 1991). Il volontariato, sebbene considerato da taluni studiosi come una forma di lavoro atipica e svalutante, alla luce del precetto fondamentale che impone la remunerazione “proporzionata e sufficiente” del lavoratore sic et simpliciter (articolo 36 Cost.), costituisce una leva per lo sviluppo di contesti di solidarietà: ad esempio il lavoro svolto in modo non retribuito con la prospettiva di conoscere nuove persone e nuove occasioni di scambio, quello svolto per acquisire competenze che prima non si avevano, dunque a tenore formativo, o per farsi conoscere su una piazza diversa. La Legge quadro del 1991 definisce il lavoro volontario come quello prestato “in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà” (articolo 2), salva la possibilità del rimborso spese. Il datore di lavoro è tenuto a tutelare il volontario contro malattia e infortuni, mentre non ha obbligo retributivo né contributivo, e i volontari possono essere sia autonomi che subordinati.

La sostanziale peculiarità del lavoro volontario è quella di presupporre, in capo al lavoratore, una situazione economica che ne consenta lo svolgimento (redditi propri da capitale, o una famiglia di supporto), diversamente non si tratta di volontariato, ma di un’attività svolta in condizioni di precarietà tali da poter configurare il caso di uno sfruttamento, come accade spesso nelle aree marginali dei settori produttivi.

Talvolta il lavoro è non riconosciuto a causa della condizione della lavoratrice o del lavoratore, quando l’ordinamento ponga delle limitazioni soggettive alla libera prestazione di servizi, come accade nel caso degli immigrati non regolari, oppure nel caso dei soggetti di minore età, i quali possono trovarsi a poter/voler prestare un’attività, anche di cura, che non sarà tuttavia riconoscibile come tale dall’ordinamento, in quanto quest’ultimo vieta loro di svolgerla.

Non riconosciuto è invece tutto lo scibile del lavoro (spesso di cura alla persona e/o domestico) che resta nell’ombra dei lavori e lavoretti ufficiali, l’insieme del lavoro nero inteso come attività, tal volta in qualche modo remunerata, che si svolge al di fuori del contratto di lavoro regolare, non partecipando delle tutele obbligatorie e accessorie ivi normalmente disposte (trattamento normativo, infortuni, previdenza); per questo tipo di lavori sappiamo non essere esclusi riconoscimenti parziali, primo tra tutti quello dell’articolo 2126 c.c. sulla retribuzione delle “prestazioni di fatto”, quelle cioè rese a prescindere dalla validità dell’accordo, ove il diritto alla retribuzione è espressamente fatto salvo in caso l’invalidità investa una tutela lavoristica (ad esempio il minore messo al lavoro in violazione di legge, cui l’articolo 2126 c.c. consegna comunque il diritto al pagamento). Solo in caso di illiceità dell’oggetto o della causa dell’accordo quella prestazione non potrà essere considerata utile in alcun senso lavoristico (l’esempio di scuola è l’attività della prostituta).

2. Il lavoro di cura.

Per arrivare alla più specifica questione del lavoro di cura, occorre focalizzare l’attenzione su cosa dobbiamo intendere per “cura”.

Il lavoro di cura ha, notoriamente, un valore crescente nella società e può riferirsi alla cura della persona come alla cura di oggetti. La cura della casa e dei figli, per esempio, costituiscono attività dal valore economico e sociale di indubbia portata, tanto da costituire specifico oggetto di studio anche statistico. Ma, a torto o ragione, accade che esso venga trasfuso dall’attuale sistema economico e di governo nel valore contrattuale del rapporto di lavoro svolto dai membri della famiglia presso terzi: si tratta di un valore trasfuso nella busta paga del marito e della moglie, o solo nella busta paga dell’uno quando le condizioni non abbiano portato ad una parità retributiva. È in queste buste paga che troviamo il lavoro di cura svolto a favore della propria famiglia e/o del più ampio contesto materiale e sociale in cui i lavoratori operano. Per fare un esempio, il lavoro domestico svolto dall’ingegnere Rossi o dall’impiegata Bianchi presso le rispettive residenze, o presso la stessa residenza se sono conviventi, sia che si tratti di lavoro di cura specialistico – come quando vi fosse necessità di accudire una persona malata – oppure di preparare pasti, portare a spasso il cane, pulire il bagno o fare la lavatrice, tutte attività che hanno un valore economico in crescita con la drammatica esperienza del Covid-19 – non costituisce una voce autonoma del loro reddito. Il Decreto Presidenziale n. 1403/71 aveva disciplinato il regime contributivo dei domestici (coprendo vecchiaia, invalidità, disoccupazione, assegni per il nucleo familiare, maternità) conferendo a questa categoria una tutela ordinamentale netta, una tutela cioè che, a fronte di eventi interruttivi del fisiologico svolgimento della prestazione, stabilito su basi contrattuali, garantisce la persona fuori dal contratto e fuori dal rapporto, mettendola in condizione di sicurezza nel più ampio mercato lavorativo. Ma naturalmente il Decreto non ha disciplinato altrettanto tutto lo scibile del lavoro domestico non riconosciuto svolto dall’ingegnere Rossi o dall’impiegata Bianchi, per il semplice fatto che nessuno, né a casa dell’uno né dell’altra, o nella casa comune, ha mai vestito i panni del datore di lavoro che impegna sé stesso, o si disimpegna incaricando l’altro, di svolgere lavori domestici. Ne deriva il carattere volontario di queste attività: i conviventi collaborano per il funzionamento della vita familiare soddisfacendo così un bisogno altrui oltre che proprio, trovando viceversa la fonte di sostentamento materiale nel lavoro svolto presso terzi o in diverse fonti di reddito.

Non è mancata l’attenzione della giurisprudenza verso quelle ipotesi di lavoro di cura a cavallo tra il lavoro domestico regolare, l’impresa familiare e i rapporti di mera convivenza nei quali si presume la gratuità delle prestazioni rese. Infatti, la Cassazione ha rilevato, contro la presunzione di gratuità, casi di lavoro sommerso, vincoli di vera e propria subordinazione celati tra le mura domestiche: con sentenza n. 12433 del 16 giugno 2015 (riportata anche in F. Barracca, M. Caputo, Compendio di diritto del lavoro, sindacale e della previdenza sociale, Molfetta, 2020, 52) si era verificata l’esistenza di un rapporto di tipo subordinato domestico intercorso per circa vent’anni tra due donne legate da un vincolo affettivo, con svolgimento di plurime mansioni di pulizia e accudimento delle faccende di casa da parte di una sotto la direzione dell’altra, e dietro promessa di un compenso mai effettivamente corrisposto. Gli equilibri familiari sono dati dalla giusta collocazione delle risorse, così che il componente a più alto reddito è anche quello che tendenzialmente a casa ci si trova di meno e si lascia aiutare da chi è meno impegnato nel lavoro verso terzi. Dunque, spesso è anche per amor di pace che il lavoro di cura resta nell’ombra, e le donne sono tradizionalmente quelle più propense a non muovere rivendicazioni, avendo culturalmente il ruolo di colonne portanti della casa e della famiglia. L’articolo 230 bis del codice civile disciplina il caso del lavoro svolto dai familiari (coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo) il quale, a meno che non sia configurato e qualificato con contratti particolari (ad esempio un rapporto di tipo subordinato), viene inteso come quel lavoro fornito in modo continuativo alla famiglia e alla sua impresa, e che dà diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale familiare e alla partecipazione agli utili. Il comma 2 dell’articolo 230 bis definisce espressamente il lavoro della donna equivalente a quello dell’uomo.

3. Il lavoro di cura alla persona.

Certo quando si tratta di un oggetto, l’opera di cura è evidente, ha a che vedere con la pulizia, l’abbellimento, l’ammodernamento, la messa in efficienza o in sicurezza. Quando si tratta di cura alla persona, invece, la cosa è più complicata, anche se le condizioni esteriori del soggetto in cura sono indicative. Un soggetto apparentemente trasandato potrebbe godere invece di ottima salute per aver riposto i suoi pensieri in un ambiente accogliente e per avere interesse a confondere i suoi osservatori esterni, un altro potrebbe apparire non morigerato al puritano mentre intende le proprie esperienze di vita come una fonte di rigenerazione mistica, un bambino è praticamente un quaderno bianco su cui gli adulti possono scrivere e riversare le proprie illusioni morali e le proprie scelte culturali, un infermiere professionale potrebbe in buona fede poprocurare seri danni usando il farmaco sbagliato, insomma, la cura è sempre una questione di relazione, che non può prescindere, per essere seriamente considerata, dalle condizioni personali e interpersonali dei soggetti e degli strumenti che quelli hanno a disposizione nel relazionarsi l’uno agli altri. Bene fece il codice civile del 1942 quando stabilì che alla cessazione del rapporto domestico, il datore dovesse attestare la natura delle mansioni effettivamente svolte.

Nella categoria dei lavori di cura giuridicamente riconosciuti troviamo certamente i lavori di cura professionali, svolti dalle donne in modo statisticamente non discriminato, nel senso che ad essi accedono donne e uomini in maniera quantitativamente non dissimile (tra i tanti dati si vadano quelli riferiti da Paolo Feltrin, Le logiche sindacali di azione nel pubblico impiego in tempi di crisi e riforme, in SINAPPSI, 2020, 1, 42, che indica una maggioranza del 66% di donne impiegate nel settore sanitario pubblico nell’anno 2016).

I lavori di cura professionali sono svolti in virtù di un contratto con l’ente sanitario o con la struttura privata (spesso in forma cooperativa) e sono tesi a fornire all’utenza, in modo più o meno orientato, in modo più o meno oneroso, un servizio di assistenza sociale, medica e/o infermieristica, o anche una consulenza preventiva, come in genere accade nella sanità convenzionata, quella dei medici di famiglia o dei pediatri per intenderci. Questo tipo di lavoro professionale, così tanto messo alla prova dall’ondata pandemica, viene svolto presso le residenze sanitarie, gli ospedali, ma anche, specialmente nell’ambito del lavoro convenzionato col SSN, entro i confini domestici, si pensi al caso delle visite domiciliari di medici e infermieri.

Per questo tipo di lavoro, riconosciuto anche a prescindere da una istanza di cura concreta – come nel caso di cittadini sani aventi comunque diritto al supporto di medici di famiglia e pediatri – si applica un trattamento economico, e dunque previdenziale, connesso con il numero degli iscritti più che con gli interventi di cura effettivi. Diversamente, gli specialisti ospedalieri o convenzionati operano a fronte di un bisogno effettivamente manifestato (attraverso l’accesso alla struttura, pronto soccorso o prestazione specialistica previa prescrizione del medico di base o prestazione specialistica richiesta in privato).

Ecco, se con poca difficoltà si può così definire l’ambito del lavoro di cura professionale, giuridicamente riconosciuto in quanto tale, ben più ostico è definire l’ambito non meno esteso delle attività di cura alla persona che tanto le donne quanto gli uomini svolgono a prescindere da un espresso e specifico riconoscimento contrattuale, e che ci porta a dover preliminarmente interrogarci su cosa intendiamo per “apporto curativo”.

Infatti se non distinguiamo in termini giuridicamente utili ciò che è curativo da ciò che, per quanto utile alla persona, non tange sulla sua salute, dunque non concerne il benessere della persona, entreremmo in un labirinto di possibilità infinito, che fa leva sui cavilli della psiche umana per ribaltare di continuo prospettive e condizioni biologiche. Per esempio potremmo arrivare a considerare curativa un’opera d’arte a prescindere dal nesso specifico che ha determinato l’impatto della stessa sulla salute del soggetto: lo stesso balletto potrebbe implicare il rallegramento di un teatro intero come l’infarto di una persona debole di cuore. Similmente dovremo prestare attenzione alla relatività degli svariati approcci medico/curativi, fino a quelle posizioni che professano la bontà del male minore (“è meglio essere affetti da una qualche patologia minore per non incorrere nel male peggiore”, “l’esperienza del malanno che crea l’anticorpo” etc., etc.).

Dunque, a voler considerare seriamente il lavoro di cura utile alla salute umana, non si dovrebbe prescindere dalle implicazioni della relazione organica su cui l’attività impatta, e sulla quale incide. Assume cioè importanza, soprattutto nella prospettiva emergenziale, l’esplicitazione del rapporto di cura in termini di nesso funzionale alla vita in salute. A voler essere chirurgici, assume rilievo la norma civilistica sul concorso di cause che producono l’evento (in positivo la messa, o rimessa, in condizione di salute della persona, in negativo l’evento patologico), ed in virtù della quale un certo evento può dirsi determinato da una o più cause, preesistenti, simultanee o sopravvenute, a meno che una sola di esse (sopravvenuta) sia stata sufficiente a determinarlo (articolo 40 c.p.).

Questo ci porta a considerare come di particolare evidenza in termini puramente curativi tutti quei rapporti che implichino una convivenza, come anche a sondare il peso dei diversi generi nella relazione di cura, dove spesso una considerazione stereotipata della relazione, come l’incompatibilità effettiva (di genere, di carattere, di età, di tipo clinico, etc.) tra due persone potrebbe portare a un esito del tutto disfunzionale della cura, insomma ad ammalare una persona invece che curarla. Si tratta di attività in cui le condizioni soggettive e psicologiche, l’autonomia sociale ed economica delle persone interessate assume rilevanza soprattutto in termini di accesso alle informazioni utili per la conoscenza biologica, dunque per lo stabilimento della relazione sociale e psichica, dunque per la formulazione della diagnosi e delle eventuali prescrizioni terapeutiche. Si tratta di relazioni in cui l’elemento fiduciario è determinante (mentre la mancanza di questo affidamento è indice del fatto che si è in presenza di un significato diverso del rapporto in essere) ma potrebbe non essere sufficiente per garantire le funzioni vitali e salutari del paziente. Ad esempio un bambino potrebbe essere la ragion di vita di un nonno e tuttavia non sapere come procuragli i viveri a fronte di qualche inceppamento burocratico che ha bloccato l’erogazione della pensione. Talvolta il lavoro di equipe medica porta alla cura dei pazienti inducendo il loro rapporto diretto con altri malati, e talaltra una informazione scorretta sui bisogni della persona induce a generare uno stato di malattia ulteriore rispetto a quello che si intendeva curare. Senza contare, oltre alle variabili soggettive che condizionano lo stato di salute di ogni persona (nesso funzionale specifico nella relazione bilaterale o complessa) le variabili temporali (una persona può godere di ottima salute la mattina e trovarsi con una gamba rotta la sera, etc.).

Se queste sono le premesse per delineare la presenza di un rapporto di cura, vediamo che in mancanza delle stesse premesse, tra il soggetto che accede alla struttura o al presidio sanitario e gli/le addetti/e alle cure, e che implica una conoscenza circostanziata delle condizioni personali dell’interessato, quello che si determina non è un rapporto di cura in senso proprio, ma una fornitura di servizio professionale, giuridicamente riconosciuto come tale, atta a condizionare, in senso amministrativo, burocratico, oppure economico le scelte dell’interessato. Come un avvocato che consiglia di evitare una separazione giudiziale costosa, l’infermiera potrebbe aver erogato un servizio, al soggetto in cerca di un farmaco come di un orientamento, non tanto di salute, ma di risparmio.

Si tratta di precisazioni preliminari che aiutano a far riflettere seriamente sulle scelte pubbliche di molte amministrazioni sanitarie davanti al Covid-19, e a far distinguere presunti eroi da eroi veri, medici curanti e amministratori della salute individuale e collettiva, questioni sanitarie e questioni immobiliari, ma anche a meglio orientare le scelte del cittadino in condizioni di vulnerabilità. Spiegano perchè davanti a una situazione pandemica apparentemente di carattere uniforme-globale, a un virus con caratteristiche specifiche comuni riconosciute a livello mondiale, si stiano dando risposte diversificate ai diversi livelli amministrativi.

4. Il lavoro domestico.

Tenendo ferme le premesse appena fatte sul lavoro di cura alla persona sarà possibile ponderare con maggiore cognizione di causa i contenuti del rapporto di lavoro domestico, col quale siamo soliti comprendere tanto quello avente ad oggetto la cura della persona, quanto quello avente ad oggetto la cura degli interessi oggettivi della persona, la custodia del suo giardino, dell’auto, degli animali da compagnia, commissioni domestiche che non si riflettono in modo direttamente incisivo sulla sua situazione vitale e salutare, che non implicano un nesso causale/funzionale alla vita. Gli entusiasti del digitale vorrebbero estendere anche allo smart-working e al telelavoro la resa di prestazioni domestico/curative (basti pensare agli sviluppi della telemedicina professionale). Normalmente il lavoro svolto (anche senza una qualifica professionale/sanitaria) in una prospettiva temporale di medio lungo termine (invece che di prestazione una tantum) per accompagnare la persona nei suoi bisogni di vita quotidiani (mangiare, lavarsi, dormire, uscire all’aria aperta) in una dimensione spazio-temporale definita, nelle ore diurne o anche in quelle notturne, non può non avere un contenuto curativo, di cui ogni intervento sanitario circostanziato dovrebbe tenere di conto per essere, a sua volta, utilmente funzionale (per esempio è inutile il pacco spesa dei servizi sociali al pensionato che abbia un figlio che sia solito provvedere per lui i viveri, che svolga insomma per lui un’attività di cura domestica “giuridicamente” non riconosciuta in via autonoma).

Il lavoro domestico è regolamentato in Italia secondo una normativa che in parte deroga al rapporto di lavoro subordinato di comune accezione: la Legge n. 339 del 1958 definisce domestici “i lavoratori di ambo i sessi che prestano a qualsiasi titolo la loro opera per il funzionamento della vita familiare, sia che si tratti di personale con qualifica specifica, sia che si tratti di personale adibito a mansioni generiche” (G.U. Serie Generale n. 93 del 17 aprile 1958;curiosamente, un testo di taglio giuridico come Memento Pratico Ipsoa – Francis Lefebvre2010, 373,lo definisce in maniera sottilmente diversa, come “la prestazione resa dal lavoratore – a qualsiasi titolo – della propria opera per il funzionamento della vita familiare al fine di soddisfare un bisogno personale del datore di lavoro”). La legge, straordinariamente rispetto alla disciplina legale del lavoro subordinato, dispone per questo rapporto una durata giornaliera minima di 4 ore, e il possibile pagamento in natura. La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, per datore di lavoro, possa considerarsi la singola persona ma anche un gruppo familiare, oppure una comunità stabile senza fini di lucro (come le comunità religiose e militari), ma non deve trattarsi di una organizzazione di tipo industriale o professionale o imprenditoriale (vedasi Cassazione n. 2354 del 31 marzo 1983; Cassazione n. 21446 del 30 agosto 2018, inwww.laprevidenza.it, in cui la ricorrente asseriva essere esclusa la natura domestica del rapporto in presenza della natura di impresa della comunità religiosa, cui partecipavano soggetti terzi). La contrattazione collettiva nazionale più recente (2019) ha abbracciato una definizione a dir poco ampia del lavoro domestico: “il contratto si applica a tutti i lavoratori addetti al funzionamento della vita familiare”, e consente un altrettanto ampio rinvio alla contrattazione territoriale di secondo livello, anche per la previdenza integrativa. La stessa contrattazione ha stabilito, tra l’altro, il trattamento retributivo, senza distinguere tra lavoratori nazionali e stranieri, e previsto un salario minimo mensile per i domestici conviventi (che può arrivare a 1.200,00 euro per coloro che posseggono un diploma specifico, e si assesta a 550,00 euro per le prestazioni di mera attesa).

Il Codice civile del 1942, nell’affermare che il lavoratore domestico, alla cessazione del rapporto di lavoro, ha diritto alla certificazione che attesti la natura delle mansioni disimpegnate, insieme al periodo di servizio prestato, ci aiuta a capire come il lavoro di cura ivi implicato presuppone una integrazione specifica del lavoratore nella comunità (tipicamente familiare): la collaboratrice domestica è quella lavoratrice che solleva la persona (datore) dagli impegni familiari che egli altrimenti avrebbe, che possono andare dal pagare un bollettino alla posta, fare il bucato, tagliare l’erba etc.. Le mansioni specificamente necessarie sono quelle che definiscono i contenuti del rapporto domestico, mentre la capacità e la disponibilità del lavoratore sono quelle che determinano lo svolgimento effettivo e utile di questo lavoro, a prescindere dal sesso del lavoratore. Indipendentemente dalla formazione specialistica ricevuta (“infermiere generico”, “chef”, “autista personale”, “giardiniere”, “custode” etc.) cioè in forza di quella o prescindendo da quella, è fondamentale che il domestico o la domestica abbia la capacità di rispondere delle esigenze di cura che il datore gli comunica. Non si può, di contro, in una prospettiva giuridica, pensare che il lavoro di cura debba spingersi oltre le esigenze chiaramente espresse dal datore di lavoro. Diversamente si porrebbe il caso di un utilizzo abusivo di questa formula contrattuale, o di un rapporto simulato, e a tal proposito val la pena soppesare il fatto che le attività illecite, quali le molestie e gli abusi, possono essere occasionate da contesti lavorativi, come da contesti familiari, indipendentemente dalla formula contrattuale che lega il malintenzionato alla sfortunata: le definizioni legali del contesto relazionale non salvaguardano contro i malintenzionati, che anzi spesso hanno la capacità di aggirare i paletti legali per perseguire i propri biechi interessi.

Le donne costituiscono il genere ancora più largamente impiegato nel lavoro domestico (dati INPS del 2019 riportano una percentuale del 88,7% di femmine sul totale). Il lavoro domestico costituisce l’8% degli oltre 23 milioni di occupati in Italia, ma uno studio dell’ILO ha valutato che, ove supportato in modo adeguato, potrebbe generare circa 1,4 milioni di posti di lavoro entro il 2030 (OIL, Prospettive occupazionali e qualità del lavoro di assistenza e cura in Italia, Roma, 2018). Da questo stesso studio di carattere internazionale è desumibile che oggi la regolamentazione normativa di questi rapporti, dunque anche dei relativi aspetti di vulnerabilità – pensiamo che è un lavoro che può veder integrata completamente la vita del prestatore di lavoro con la vita della famiglia – è rimessa al bilateralismo, dunque all’attivismo delle parti sociali.

Dei due milioni di lavoratori domestici, si stima che il 58% sia svolto in modo irregolare; il D.L. n. 34 del 19 maggio 2020, articolo 103, ha disposto una procedura agevolata per l’emersione di lavoro irregolare, che comprende anche quello domestico (la sanatoria contempla il settore agricolo, quello della cura alla persona e quello del lavoro domestico). È notizia del 15 agosto 2020 che l’85% delle domande di regolarizzazione presentate da immigrati (177 mila su 207 mila) siano state registrate come per lavoro domestico, quando ci si aspettava che il grosso da regolarizzare fosse nel settore agricolo (T. Boeri, F. Fasani, in Lavoce.info, 12 novembre 2020).